

Scopra di più da Sunday Jumper
Che fai di bello? Seguimi, per saperlo...(e, così, vince l'algoritmo)
Se incontro e dialogo si riducono alle piattaforme affamate di utenti, di dati e di numeri, gli esseri umani diventano macchine, proprio in un'era in cui le macchine diventano intelligenti e creative.
Immagine realizzata con Midjourney da Jumper
Qualche giorno fa ho incontrato una ex studentessa, che ho anche seguito in tesi, fa l’illustratrice, ed è molto brava. È stato un (ri)incontro fortuito, una coincidenza, non la vedevo da parecchio e le ho chiesto cosa stesse facendo di bello; mi ha brevemente detto che stava lavorando tanto e che era contenta, lo ero anche io ma visto che era in compagnia di amiche, non le ho voluto rubare altro tempo, e le ho chiesto se mi mandava qualcosa da vedere, dei suoi lavori, che mi avrebbe fatto piacere vederli. Lei mi ha risposto “beh, seguimi…”, sottintendendo di seguire le sue pagine social. Ho risposto che lo avrei fatto, ma che comunque mi avrebbe fatto piacere ricevere qualcosa, direttamente.
Col passare dei giorni, quel concetto del “seguimi” mi ha fatto riflettere perché è un campanello di allarme che fa intuire che si è passati (genericamente, non necessariamente in questa occasione specifica), da un approccio relazionale in cui l’incontro, lo scambio di informazioni era prioritario, o quantomeno importante, al fatto che l’interesse si deve manifestare (o anche solo “appare sensato”) con una presenza nel “seguire”, che poi si trasforma in un approccio che monetizza - quantomeno in numeri, se non addirittura in concreto valore economico - la cerchia delle conoscenze. Se ti interessa sapere di me, di quello che faccio, allora “seguimi”, così puoi partecipare al banchetto che ciascuno imbandisce attorno al proprio spazio pubblico. Ci attende un futuro che rende sempre più importante la presenza in un contesto virtuale, e sempre meno uno scambio diretto di idee, di esperienze, di dialogo?
Non è un discorso nuovo, ovviamente, e forse ha un sapore da “argomento da vecchi”, sembra che sia una preoccupazione che riguardi solo le persone che magari hanno vissuto in un’era precedente, quella in cui i Social Media non esistevano proprio, ma siamo invece sicuri che sia una tensione che comunque arriva anche alle nuove generazioni; nel pensarci, ci siamo imbattuti in questo articolo del Washington Post [LINK], che parla del come Abbandonare i social media può portare a solitudine, cercando di trattare il tema al contrario di quanto non lo stiamo provando ad analizzare noi, ovvero parla di chi, per sfuggire alla tirannia degli algoritmi, cerca di sfuggire dalle piattaforme. Non crediamo che la soluzione sia quella dello sfuggire da un ambiente popolato da tutti (i social), e che governa anche la nostra cultura e la nostra società; cerchiamo di capire se dobbiamo abbandonare la vita “reale” (sempre che abbia un senso, questo termine, ormai) o se abbiamo ancora speranza di trovare spazi per un dialogo che si sviluppa non solo “online”, ma ancor peggio solo in ambiti dove quasi sembra che sia necessario timbrare un cartellino della presenza, perché in quell’ambiente conta più “contare”, far parte del “conto” delle persone che ti seguono, o se vale ancora l’interesse spontaneo e disinteressato.
La società della socializzazione dei “Like” e dei “Followers” porta ad alimentare quantità e non qualità, non solo nelle relazioni, ma anche nel tono e nel dialogo, addirittura influenza e diluisce quello che si ha da dire, e come lo si dice. Lo esprime molto bene questo articolo, dal titolo “Everything advertised on social media is overpriced junk”, che tradotto sta a significare: Tutto ciò che viene pubblicizzato sui social media è roba costosa e di scarsa qualità [LINK]; scritto da una delle persone che più apprezziamo come scrittore e come attivista della sfera del digitale, Cory Doctorow, che sostanzialmente dice (qui sotto, un breve riassunto creato con ChatGPT4, che usiamo proprio per creare questo tipo di documentazione che ci permette di archiviare nel nostro immenso database i contenuti che poi ci servono per costruire articoli, lezioni, approfondimenti, consulenza… usatelo anche voi!):
L'autore, Cory Doctorow, afferma che la maggior parte di questi prodotti sono frutto di pratiche di marketing aggressive e ingannevoli, che sfruttano le dinamiche dei social media per incrementare le vendite. Doctorow evidenzia come le aziende utilizzino tecniche di marketing mirate, come l'influenza dei social media e la creazione di false recensioni, per convincere i consumatori ad acquistare prodotti di dubbia qualità. Inoltre, l'autore sottolinea che molti di questi prodotti sono realizzati con materiali di scarsa qualità e con una bassa attenzione all'etica e alla sostenibilità.
Quindi siamo di fronte ad una perdita di capacità relazionale, argomento dal quale siamo partiti, che porta a rimanere attaccati a delle piattaforme che sostanzialmente ci usano come merce da vendere o a cui vendere qualcosa con il pretesto di intrattenerci in sostituzione di quelle relazioni che abbiamo perso per spostarci sulle stesse piattaforme di cui sopra, e che poi ci impongono - per mantenere vivo il movimento, l’interesse delle persone che in teoria in parte potremmo incontrare dal vivo, per alimentare gli algoritmi che, altrimenti, ci fanno sparire dalla vista - di creare contenuti che proprio a causa della tensione della produzione continua diventano sempre più di bassa qualità. Anche in ambito creativo, sarà una coincidenza, ma contemporaneamente al delinearsi di questo pensiero, mentre preparavo questo SundayJumper, ho scovato un altro articolo, dal titolo The Epidemic of Meaningless Design Content (L'epidemia di contenuti di design privi di significato) [LINK] che mette in luce questa evidenza dell’abbassamento di qualità anche nell’area della creavità. Insomma, non è una nostra impressione, non è una nostra paura: è un fatto evidente…
Da qualche parte, dobbiamo uscirne, se non ci si accorge che questo è un loop nel quale diventa impossibile mantenere una dimensione umana, allora si rischia di scoprirlo quando, ormai, sarà troppo tardi.
Oppure, forse… è già troppo tardi?
Già, perché siamo entrati, come stiamo dicendo da parecchio tempo a questa parte, in un’Era, quella che sarà dominata dall’intelligenza artificiale, che porta a (ri)pensare alla produzione globale, e quindi di conseguenza anche alle relazioni nell’ambito del lavoro. Abbiamo già discusso della paura che l’AI possa sostituire fotografi, videomaker, scrittori, content creators, e tutti coloro che “creano contenuti” e non è così, lo abbiamo detto già all’infinito, se si capisce cosa ci permette di essere superiori alle “macchine”, ma è proprio così invece per chi non ha le qualità, le competenze, la corretta visione per contrastare questa onda evolutiva. E per un attimo dobbiamo pensare anche alle persone che magari sono più deboli che subiranno una perdita di competitività - se non lo stesso posto di lavoro - perché verranno sostituiti da sistemi che faranno meglio di loro il lavoro che finora hanno svolto. Lo dice, correttamente, un ennesimo articolo dal titolo: L'IA non può giovare a tutta l'umanità che vi segnaliamo [LINK], che dice, in poche parole (ancora grazie al sommario, realizzato e tradotto in italiano da ChatGPT4):
L'articolo affronta il dibattito dell'impatto dell'intelligenza artificiale (IA) sulla società e sostiene che l'IA non può giovare a tutta l'umanità. L'autore mette in discussione l'ottimismo diffuso riguardo ai benefici dell'IA, sottolineando che la sua applicazione può portare a disuguaglianze e problemi sociali.
Uno dei principali problemi sollevati dall'autore riguarda la concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di poche aziende tecnologiche che controllano l'IA, il che può portare a un aumento delle disuguaglianze economiche. Inoltre, l'autore evidenzia come l'IA possa contribuire alla discriminazione algoritmica e alla violazione della privacy degli utenti.
L'articolo sostiene che, per evitare questi problemi, sia necessario un approccio collettivo e democratico allo sviluppo e all'implementazione dell'IA. Ciò includerebbe una maggiore regolamentazione e supervisione da parte dei governi, nonché una distribuzione più equa dei benefici derivanti dall'IA tra le diverse classi sociali e le comunità.
Ma, oltre ai creatori di contenuti, che vedono la minaccia dei sistemi di AI, ci sono altre categorie che forse non sono state mai prese in considerazione, dai modelli/modelle e le loro agenzie che vengono sostituite da immagini create dall’intelligenza artificiale, ma anche agenzie stock come Shutterstock e Getty o persino truccatori, gli assistenti dei fotografi, gli studi che noleggiano sale di posa, le aziende che producono e vendono attrezzature per la ripresa, se ne parla in questo ultimo articolo che vi segnaliamo [LINK].
Segnali evidenti di queste evoluzioni sono quelli delle campagne pubblicitarie che già sono state create con l’AI, per esempio, ma non solo, dell’agenzia inglese Maison.Meta come per esempio quelle di Revolve [LINK] o quella di Monclair [LINK], di cui abbiamo pubblicato qui sopra alcune delle bellissime immagini, che potete anche trovare sulla pagina Instagram dell’agenzia [LINK].
Questo nostro percorso, a punti, esplora quindi titubanze e preoccupazioni per una mancanza di coscienza nei confronti del lato più importante che potrà traghettarci positivamente verso il futuro: quello del rimanere umani, in un mondo in cui idee, creatività, sensibilità rischiano di essere sempre più frutto di un algoritmo, e non di mente, respiro, cuore che pensavamo fossero gli unici ingredienti a distinguerci dalle macchine. Stiamo rischiando di diventare, noi, le macchine, attaccate al cordone ombelicale dei dati e della sola presenza/esistenza digitale e di lasciare alle macchine il lato più senziente, e chi lo dice - anche se di AI è un vero esperto - viene pure licenziato [LINK].