Come l’AI sta cambiando le relazioni (e cosa questo significa per chi lavora con le immagini)
L'AI entra nelle nostre relazioni, non come surrogato, ma come presenza. In questo numero esploriamo il nuovo alfabeto dell'empatia digitale e il ruolo, rinnovato, di chi lavora con le immagini.
Siamo diventati spettatori abituali delle nostre stesse rappresentazioni digitali. Ma quando abbiamo smesso di sentirne il peso?
Non vogliamo certo tornare indietro a cinque anni fa, quando la tragedia del lockdown ha sconvolto tutti noi. Ma di sicuro quello è stato un momento in cui, inevitabilmente, abbiamo iniziato a ripensare e reinterpretare le relazioni umane. Però quello che ci ha chiesto lo schermo in quei mesi — di diventare una finestra, una parete trasparente tra noi e l’altro — si è effettivamente radicato oltre la necessità. Ha contribuito a colonizzare la normalità. E in quel passaggio impercettibile dall’emergenza all’abitudine, qualcosa si è spostato per sempre nel modo in cui costruiamo intimità, amicizia, fiducia. Lo schermo non separa soltanto, ma media, traduce, a volte filtra — spesso distorce. E l’avvento di relazioni assistite dall’AI, oggi, si innesta perfettamente in questo solco già scavato.
Mark Zuckerberg ha recentemente offerto una visione precisa di questo futuro, nel corso di una conversazione con Dwarkesh Patel nel suo podcast "The Lunar Society" (ascoltabile qui). Lì delinea un ecosistema in cui le intelligenze artificiali diventano non sostituti, ma addirittura compagni conversazionali, preparatori emotivi, suggeritori discreti. Il dato da cui parte è crudo, ma eloquente: l’americano medio ha meno di tre amici reali, e ne desidererebbe quindici. Da qui l’idea che un assistente digitale non sia un surrogato, ma una nuova forma di presenza. Uno specchio che non riflette, ma ascolta.
Questa idea di empatia algoritmica non è solo un esercizio di design, ma una proposta culturale. Il digitale entra nel campo delle relazioni umane con un piede incerto e l'altro già ben saldo nel desiderio: non solo offrire risposte, ma modellare le domande. Cosa ci aspettiamo da un confronto? Cosa significa davvero essere ascoltati, capiti, accompagnati in una decisione difficile? Oggi c'è chi si esercita a dire una verità scomoda all'AI prima di affrontare il partner. Chi si prepara a un colloquio simulando toni e risposte con un avatar. Sono scene ancora marginali, ma che prefigurano un nuovo alfabeto relazionale.
C'è una fascinazione evidente in tutto questo. Ma anche un rischio che vale la pena nominare: il "reward hacking", cioè la gratificazione immediata di una conversazione perfetta, senza conflitto, che può diventare dipendenza da relazioni programmate per rassicurarci. Non è un caso che molte AI conversazionali siano progettate per elogiarci, per confermare le nostre intuizioni, per simulare empatia in forma di adulazione — come sottolineato anche in questi articoli di Vox e VentureBeat. Non è l'AI a sbagliare, in questo caso. Siamo noi a disimparare il valore della fatica, del fraintendimento, della pazienza. In altre parole: dell'umano.
E qui entriamo in un territorio che tocca da vicino il mondo di chi lavora con l’immagine. La fotografia che non è giornalistica e di documentazione — pensiamo quindi al ritratto, alla cerimonia, alla moda, alla pubblicità — ha sempre avuto un piede nella realtà e uno nel desiderio. Un bravo fotografo sa che il suo compito non è solo riprodurre, ma restituire: una versione della verità che ha senso per chi la guarda, che illumina un momento, che suggerisce una storia. In questo senso, chi fa immagine è già, da tempo, un mediatore tra reale e percepito.
Nel momento in cui l'AI entra nelle relazioni, nel linguaggio e nella memoria personale (con foto generate, alterate, potenziate), il fotografo diventa ancora più una figura di confine. Non più solo testimone, ma quasi curatore di affetti, un trasformatore di emozioni richieste (o anche solo percepite) dal cliente. Perché il fotografo, da sempre, non si limita appunto a riprendere la verità (è sempre esclusa da questa analisi la fotografia che, per sua natura DEVE essere vera): la interpreta, la illumina, la rende desiderabile. Prima con la tecnica, poi con la post-produzione, oggi con l'AI, che diventa uno strumento narrativo potente, capace di trasfigurare il reale in qualcosa che parli ancora di più al cuore di chi guarda.
Ma visto che ogni invitato ad un matrimonio ha il proprio dispositivo, il proprio filtro AI, il proprio occhio digitale già puntato sulla scena, allora la sfida per i professionisti non è più da tempo solo tecnica, ma espressiva. Occorre capire di più, sentire meglio, raccontare più a fondo.
E per farlo, forse dobbiamo iniziare a pensare all'AI non come un effetto speciale, ma come un interlocutore. Come un analista che raccoglie indizi, intuizioni, tracce emotive. Uno strumento da interrogare, da far interrogare, capace di aiutarci a strutturare un percorso visivo coerente e coinvolgente. Immaginate un fotografo che usa l'AI per comprendere meglio i desideri sommersi di un cliente, per far emergere un tono, un'atmosfera, un sogno. Non semplicemente per automatizzare, ma per sintonizzarsi.
Troppo spesso l'AI viene associata alla produzione di contenuti a basso costo e bassa qualità, ma il suo potenziale più profondo è un altro: può aiutarci ad alzare la qualità percepita, partendo da una comprensione più profonda delle esigenze e delle emozioni di chi abbiamo davanti. Per i creativi, questo significa non solo imparare a usare i nuovi strumenti, ma usarli per interpretare, per amplificare, per connettere. L'AI può diventare uno specchio sensibile che ci aiuta a preparare, calibrare, raffinare il nostro lavoro. Uno strumento per farci domande migliori, e quindi offrire risposte più vere.
Non ci toglie il mestiere: ci costringe a reinventarlo. E ad arricchirlo di ascolto, di intuito, di relazione.
La risposta non può essere nel confronto tecnico. Sarà, sempre più, una questione di relazione: tra fotografo e soggetto, tra immagine e identità, tra reale e narrato. L’AI non va liquidata come fredda o distante, al contrario, è un'estensione della nostra capacità di sentire, comprendere, progettare. Ma proprio perché può restituire mille versioni "possibili", è chi fa immagine che deve scegliere quella che tocca il vero. L'imperfezione significativa. L'istante rubato. L'intimità che racconta ciò che una macchina da sola non può decidere. Non perché non sia in grado, ma perché non è il suo ruolo.
E forse, proprio qui, si aprirà un nuovo spazio di lavoro e di senso: in un mondo che cerca relazioni artificiali, la vera sfida sarà quella di rendere più profonde quelle reali.
Buona domenica, buona immagine, e buona presenza.
PS: abbiamo realizzato un approfondito e attualissimo report dedicato a come usare l’AI nella fotografia di matrimonio, è gratuito per tutti coloro che sono abbonati ad AiwayLAB. Se vuoi saperne di più contattaci, scrivendo a aiway@jumper.it.