La cultura, gli strumenti, le persone. Non lasciamoli andare via
Qualche giorno fa ci ha lasciati una persona importante per il mondo della fotografia, che ci ricorda quanto si può condizionare quello che siamo e che facciamo.
È complicato scrivere questo Sunday Jumper. Doloroso, complesso, mi ha causato molti dubbi, molti ripensamenti, molti tentativi per fare (scrivere) qualcosa che avesse senso. Non solo perché il tema è così profondamente intriso della mia storia e delle scelte che ho fatto, ma perché dovrei (dovrò, mi sento di dover) parlare di una persona che di sicuro odiava gli atteggiamenti privi di valore, e non sarebbe stato corretto omaggiarlo senza la giusta sensibilità. Anzi: se ne fosse uscito un “omaggio”, ne sarebbe uscito un pessimo lavoro, da parte mia.
C’è poi un altro fattore, contrastante: per una strana coincidenza, questa domenica sapevo esattamente da una settimana di cosa avrei parlato o dovuto parlare. Non succede mai: il Sunday Jumper è un momento che si costruisce davanti alla pagina bianca, solo alla domenica mattina, quando mi metto davanti al computer e mi domando: Ok, di cosa parliamo, oggi? Lo sapevo perché sapevo che vi avrei parlato del nostro evento del 29 settembre: un momento di incontro per i nostri abbonati, un’occasione da consigliare per partecipare ad un corso davvero utile (secondo me, secondo noi) per avere una visione di un anno di evoluzioni dell’immagine dell’AI.
Ma poi mercoledì 17 settembre è arrivata la notizia che mi ha offuscato la mente, è che è morto Maurizio Rebuzzini, e non è questo il luogo per parlare di cronaca, di quello che si sta cercando di capire sulle motivazioni della sua morte e sugli ultimi istanti della sua vita, è lavoro degli inquirenti, e non cambia in nulla il pensiero che invece rimbomba in me. Rebuzzini (lo chiamavano tutti così, l’ho sempre chiamato per cognome), per coloro che sono troppo giovani e che non hanno vissuto un pezzo importante della storia della fotografia, era un narratore della fotografia. Potremmo dettagliare, ovvero che era un giornalista, un docente, un esperto, un tecnico, un critico... ma credo che la parola giusta sia quella di “narratore della fotografia”, raccontava storie di persone, di macchine, di tecniche, di libri, di immagini (fotografie). La sua narrazione alternava grande profondità culturale a “boutade” spiritose, argute o pungenti perché questo era il suo tono preferito; la sua collezione di tasselli di questa storia si manifestava dagli apparecchi fotografici alla maniacale ricerca e poi esposizione di gadget a tema fotografia (sarebbe stato capace di tutto pur di accaparrarsi una penna con il logo della Kodak, oppure una maglietta con una citazione di un fotografo).
Ma perché sono qui, senza sapere cosa, perché e come dire qualcosa su Rebuzzini? E, specialmente, cosa può essere importante da raccontare a voi? Parte di voi lo conosceva di sicuro, altri di voi, nemmeno sentito nominare. Lo faccio perché attraverso il ripercorrere alcuni momenti ed alcuni dettagli, forse riesco a spiegare meglio anche qualcosa di me e del mio percorso (e se siete qui, forse un po’ vi interessa). Perché la strada si è intrecciata in modo molto profondo, tra noi due. Anzi: in molti hanno detto che siamo sempre stati “gli opposti”, e al tempo stesso i “complementari”. In questo mondo della fotografia, ci sono stati molti interpreti, tanti narratori, tante personalità, ma in qualche modo, noi due eravamo gli estremi, con approcci di convinzione molto forti; entrambi siamo sempre stati appassionati di trasmettere la nostra visione, non stavamo mai a metà strada, non abbiamo mai fatto qualcosa di accomodante. Abbiamo cercato di essere veri, di essere catalizzatori di una certa e ben definita categoria di persone, di fotografi (professionisti, perché altra cosa che ci ha contraddistinto è stata il “chiuderci” nella nicchia dei professionisti, e non nella massa degli appassionati - molto più remunerativa e piena di opportunità), e abbiamo sempre accettato che questa verticalità e questo estremismo portasse sempre ad un effetto divisivo.
Rebuzzini non guardava “solo indietro” nella storia, come il sottoscritto non guarda “solo avanti”, però è sempre stato evidente che le risposte lui le cercava e trovava in quello che era stato, e io in quello che “sarà” o sarebbe stato. E la sua cultura e conoscenza del passato, complice un bel po’ di anni in più di me, era così profonda che in ogni momento poteva portarci a scoprire un tassello nuovo, a creare connessioni che solo lui poteva unire. Mi piaceva molto parlare con lui, ma il problema è che... eravamo i due estremi, e questo rendeva difficile farlo, anche solo trovare le occasioni per farlo. In qualche modo avevamo un ruolo distinto e contrastante nella società e delle relazioni della fotografia, posizioni opposte, e quindi in tutte le occasioni di incontri ufficiali, si percepiva distanza o si voleva far percepire distanza, e questo rendeva difficile appunto l’incontro. Eppure, ci rispettavamo e ci capivamo meglio di quanto si potesse percepire e non ce lo siamo mai dichiarato vicendevolmente.
Ci sono stati gesti, però. Quando ero giovane, avevo appena iniziato a lavorare in quel Foto-notiziario dove ho iniziato ad unire i tasselli dell’amare la scrittura e la passione per la fotografia, diventando giornalista del settore fotografico, finendo poi per occupare ufficio e sedia proprio di Rebuzzini che era uscito da quella realtà editoriale pochi anni prima; l’ho incontrato per caso, era con un amico, mi ha riconosciuto e mi ha detto: stiamo andando al cinema, vieni anche tu? E sono andato, affascinato dal fatto che lui, che era un mio “mito” e riferimento, mi prestasse attenzione, mi invitasse addirittura al cinema (era in film con Sean Penn, e lui ricordo aveva commentato... vedi, il cinema americano si può permettere di scoprire e tirare fuori attori così come se nascessero ogni giorno), e poi eravamo andati a mangiare un gelato naturale vicino all’Arco della Pace (molto alternativo, ma di quell’alternativo che piaceva a lui e che piace a me: non quelle cose da “fighetti”, ma quello che segue pensieri e culture diverse, fuori schema).
E poi, quando ho pubblicato Jump, il progetto editoriale nato per parlare della fotografia digitale, diventando di fatto, così, non solo un suo “collega” ma anche un suo “concorrente” (lui pubblicava una sua rivista “Fotographia” che parlava di storia, cultura, persone di una fotografia come detto opposta a quella che raccontavo io) è stato l’unico tra le riviste di fotografia che ha scritto un bell’articolo di un paio di pagine. E io ho spesso parlato di lui e dei suoi progetti, dichiarando grande stima. Abbiamo avuto modo di parlarci, nel suo studio di Via Zuretti (lo stesso dove è stato ritrovato in fin di vita dal figlio Filippo, il 17 settembre) e ricordo il tentativo di entrare uno nel mondo dell’altro, la volontà c’era, ma poi le strade ci portavano in un istante distanti.
Lontani per temi che ci scaldavano, lontani per audience, vicini come approccio, come battaglia per portare avanti progetti indipendenti, come ricerca di personalità. L’ultima volta che ci siamo visti è stato parecchi anni fa a casa di Alfredo Pratelli, uno degli storici fondatori dell’Afip, la più prestigiosa associazione della fotografia professionale (ahimè, gran parte di loro non ci sono più), ed è stato un momento di grande tensione: si parlava di provare a trovare un modo per non perdere le testimonianze dell’associazione (fotografie, lettere, documenti, locandine) e in quel caso le due visioni - di Rebuzzini e la mia, la sua da collezionista degli oggetti e della fruizione sensoriale, io per la digitalizzazione e la creazione di un database accessibile - si sono trasformate in una discussione dura, ed una cosa è certa: in comune abbiamo sempre avuto il fatto che potevamo e possiamo essere molto sgradevoli se veniamo toccati su temi importanti. Credo (non so, non me ne sono più occupato, è stata per me una chiusura di un capitolo della vita e dell’impegno in quel mondo) che poi non se ne sia stato fatto nulla, e forse tutto quel valore storico e culturale sia rimasto in degli scatoloni nella casa di Alfredo Pratelli. E mi porta a dire... che peccato, perché forse unire le visioni avrebbe portato a qualcosa di grande.
Ho sempre sperato di trovare il modo e l’occasione di ritrovarci, con la volontà di dirgli “perché non togli questa maschera”? (una frase che ho ripetuto come volontà nella mia testa mille volte, arrivando al punto di pensare di averlo fatto, ma credo che sia rimasta solo nella mia testa: la volontà di un avvicinamento, almeno fuori dai palchi e dalle luci, lo avrei voluto tantissimo da quasi crederlo vero). Capivo i ruoli ufficiali, le posizioni da difendere perché eravamo di “partiti opposti”, ma so - si, lo so - che eravamo dello stesso partito, quello del narrare storie e di mettere in evidenza cose importanti, abbiamo battagliato insieme per evitare la banalità, l’ignoranza, la mancanza di sensibilità per i valori: per lui forse era un basculaggio con la Sinar che permetteva magie ottiche, permettendo di manipolare prospettive e leggi della fisica e della messa fuoco senza alterare la realtà, ma anzi dando potere all’umano grazie alla macchina; per me è far capire che prima il digitale e poi ora l’AI non sono una volgarizzazione della cultura visiva, ma anzi l’occasione per crescere e per spostare l’attenzione verso il contenuto e il messaggio. Questo lo capivamo entrambi: gli strumenti che usavamo (usiamo) e che ci appassionavano (e appassionano) non sono mai stati, per noi, opposti e contrastanti tra di loro, non nemici, non da scegliere. Semplicemente da usare con cultura. Qualcuno (molti) ha detto che avremmo dovuto fare una rivista insieme, sarebbe stata la “più completa” (e forse utile) rivista per i fotografi professionisti, perché avremmo unito i punti degli estremi, e riempito con originalità tutto quello che poteva starci insieme.
Non ne abbiamo avuto modo, neanche di parlarne. Ma io l’ho pensato tanto, e penso (immagino, spero) lo abbia pensato anche lui. Perché siamo sempre stati lupi solitari, nella creazione dei nostri progetti, anche se poi entrambi andavamo alla ricerca di persone che avessero voglia di ascoltare queste idee, queste storie. Perché le storie possono esistere solo se qualcuno è disposto ad ascoltarle.
E arriviamo alla fine di questa storia, chissà se qualcuno l’avrà ascoltata. Non è un “ricordo” di una persona importante che non c’è più. È solo una storia che cerca di mettere una pezza ad un silenzio, e che possa anche essere l’occasione per riprendere dei pezzi e metterli insieme, con un pezzo di scotch. E le cose non finiscono solo quando le singole storie finiscono, si spengono. E questo mi da’ anche la forza di parlare di futuro, che sembra un’eresia in questo contesto.
Ciao, Rebuzzini. Grazie.
Una nota importante (sconnessa, connessa)
Questa newsletter esiste dal 2005 e quindi ha appena festeggiato i 20 anni, ed è sempre stato un fiume indipendente di pensieri, senza pubblicità e senza interessi, è sempre stata gratuita e lo sarà sempre; ovviamente “promuove” il nostro pensiero, il nostro lavoro, le nostre idee, ma è sempre stato un mezzo sincero, trasparente, quando abbiamo fatto delle proposte (corsi, riviste, progetti) lo abbiamo sempre fatto credendo di essere utili, di dare un contributo importante.
E quindi vi dico che vorrei vedervi al nostro evento del 29 settembre perché la sensazione che abbiamo è che poi possa essere troppo tardi per parlare di cultura di strumenti, di idee, di immagine. E di e tra persone. (in questo momento mi domando perché non ho chiesto in tempo a Rebuzzini cosa ne pensasse dell’AI, “obbligandolo” a uscire dagli schemi del posizionamento “politico e personale” - senza maschera - ma mettendo in campo la sua cultura, la sua visione, la sua sensibilità).
Ma vorrei chiederlo principalmente anche a voi, che ci leggete, per capire che quello che conta non sono le stupidaggini che si dicono in giro, dove la volgarità del “clicca e fai” sembra l’unica a valere. Ma per riuscirci non dobbiamo lasciare indietro le occasioni di incontro, di confronto, di crescita culturale, del farsi abbracciare dallo stupore e della emozioni che gli strumenti, che la tecnica, che le idee possono regalarci.
Quindi non lasciate passare le cose. Partecipate, unitevi a noi: lo diciamo perché sì, è importante per noi, ci serve per alimentare questo spazio di ricerca e di innovazione, ma serve anche a voi, perché è quello che fanno le persone che vogliono credere che partecipare e contribuire è parte di quelle scelte importanti di cui vogliamo andare fieri). Perché la sensazione è che solo così possiamo combattere il raffreddamento che si sente in giro, e che ci sembra sempre più insopportabile. E, nel frattempo, proveremo a connettere meglio quel passato che tanto emoziona alcuni a quel futuro che vogliamo provare a raggiungere e far raggiungere a tutti voi.