La fotografia ha ancora un compito. E non necessariamente quello di essere "bella".
Il valore della fotografia deve puntare sull’autenticità, nella capacità di certificare e trasmettere la realtà, specialmente in un mondo dove l’AI rende labile il confine tra vero e falso.
Da qualche tempo, ogni fotografia (ma anche ogni immagine) sembra dover rispondere alla stessa domanda: è reale o è stata creata con l’intelligenza artificiale? Una divisione netta, semplice, quasi comoda — ma pericolosa, forse anche parecchio stupida, perché questa distinzione rischia di farci perdere di vista la domanda più importante: cosa dice, veramente, questa immagine?
Oggi la fotografia dovrebbe avere un compito sempre più preciso: mostrare, certificare, trasmettere ciò che è effettivamente accaduto, quello che davvero è una realtà. Farlo in modo chiaro, trasparente, dimostrabile. Non è questione di stile o di tecnica: è questione di fiducia. Serve, in certi casi, che un’immagine sia una prova — e che chi la guarda possa sapere che è davvero accaduto qualcosa, in quel luogo e in quel momento. E questo vale per il fotogiornalismo, per la documentazione, ma anche per esprimere emozioni che “si vedevano” e non manipolate digitalmente.
Per questo sono nate soluzioni come il C2PA: un sistema per certificare le immagini, per dimostrare che non sono state modificate, che provengono da una fotocamera vera; ne abbiamo parlato molte volte e abbiamo anche realizzato un report molto evoluto nel nostro archivio di documentazione chiamato Aiway BRAIN (adaccesso gratuito per tutti i nostri abbonati LAB). Ma il suo sviluppo e la sua evoluzione appare lenta e confusa, specialmente da quando è stata implementata da Samsung, molto più interessata a questioni diverse rispetto a quelle della fotografia nella sua essenza più pura. La soluzione adottata all’interno del suo modello S25 porta a distinguere e segnalare SOLO quando un’immagine è stata realizzata con l’AI… non se è “pura” e “un segno di certificazione di qualcosa di non manipolato”.
Qualche settimana fa, Digimarc (qualcuno si ricorderà una soluzione a questo nome integrata a Photoshop per “creare una filigrana invisibile” che permetteva di integrare i dati dell’autore dell’immagine nella struttura dell’immagine, al fine di proteggere il copyright) ha rilasciato un’estensione per Chrome che poteva verificare e mostrare la provenienza delle immagini o dei design incorporati con le Content Credentials C2PA.
Ma a cosa serve? vi facciamo vedere un esempio: qui di seguito ci sono due immagini, molto simili tra di loro, provengono dalla pagina di Github di Digimarc dove si parla del progetto: una è realizzata con l’AI e una è una fotografia vera. Cliccando le credenziali C2PA di cui entrambe le immagini sono dotate, si capisce subito quale è “vera” e quale “AI”. Se quindi vogliamo sorridere insieme… chi vuole non far capire se una immagine è “falsa”, non basta non “certificare” queste immagini con il sistema che “la smaschera”? E poi, nel mondo, quante sono le immagini/fotografie che sono certificate con questi metadati? Praticamente nessuna.
La strada dovrebbe essere quella che tutti i produttori di fotocamere partecipassero a questa iniziativa, che tutti gli editori seri (o che si dichiarano tali) decidessero di adottare questo standard (come una volta National Geographic imponeva l’uso di certe pellicole per avallare la pubblicazione) imponendo ai fotografi di fornire immagini certificate al fine di poter offrire una garanzia agli utenti (lettori, visitatori) che sapranno cogliere o coglieranno questo approccio come autorevole e preferenziale, e anche i fotografi dovrebbero proporsi come fornitori di immagini “certificate”, rinunciando a trucchi e manipolazioni comode. E poi (attimo per le risate…), anche le piattaforme social dovrebbero partecipare a questa iniziativa, proponendo un parametro oggettivo sulla realtà di quanto pubblicato, e i content creator dovrebbero unirsi a questo coro. Ok, avete riso abbastanza?
Il focus non dovrebbe limitarsi a distinguere tra vero e falso certificando la provenienza; paradossalmente, un’immagine generata con l’AI potrebbe raccontare qualcosa di reale più di una fotografia. Quello che conta dovrebbe essere l’intenzione del messaggio: se si vuole comunicare qualcosa, non importa il mezzo, ma l’efficacia con cui il messaggio viene trasmesso. Uno standard funziona solo se TUTTI coloro che vogliono essere riconosciuti come “credibili” e “autorevoli” adottano questo tipo di certificazione. E sappiamo che l’umanità non è incline al “mettiamoci tutti d’accordo”.
E poi, se guardiamo questo esperimento, che ha chiesto ad oltre 11 mila persone se sono in grado di distinguere tra le immagini proposte quelle “umane” e “AI,” ha dimostrato che ci sono state molte difficoltà da parte dei partecipanti all’esperimento (che è stato fatto nel 2024, quindi nel frattempo inutile dire che la qualità è cresciuta, lato AI). Ecco qualche considerazione:
Difficoltà nel distinguere: la maggior parte delle persone ha avuto difficoltà a riconoscere le opere dell’IA rispetto a quelle umane, soprattutto quando le immagini erano selezionate per essere di alta qualità e prive di “errori tipici” dell’IA (come mani deformi o testo illeggibile).
Influenza dello stile: i partecipanti tendevano a giudicare “umano” tutto ciò che sembrava un dipinto a olio o “IA” ciò che sembrava digitale, anche se la distribuzione era bilanciata. Ad esempio, quasi tutti hanno scambiato i quadri impressionisti generati dall’IA per umani, mentre un vero quadro impressionista umano è stato giudicato “finto”.
Preferenza per l’arte IA: quando è stato chiesto di scegliere l’immagine preferita, le due più amate erano entrambe dell’IA, e il 60% delle dieci più apprezzate erano generate dall’IA.
Anche chi odia l’IA la preferisce inconsciamente: persino tra chi dichiarava di detestare quanto generato dall’IA, le immagini preferite risultavano spesso essere proprio dell’IA.
Gli esperti fanno meglio: artisti professionisti e persone con una forte avversione verso l’IA ottenevano punteggi leggermente migliori (fino al 68%), ma comunque non perfetti.
Riflessione finale: il test mostra che l’IA “supera” il test di Turing nell’arte: il 40% delle immagini IA sono state scambiate per umane. Ma soprattutto, rivela quanto le nostre opinioni sull’arte siano influenzate da pregiudizi e status, più che dalla reale capacità di distinguere la qualità o l’origine delle opere.
In definitiva, secondo noi, la strada è quella di lavorare su due binari , per fare chiarezza:
Se si vuole puntare sull’autenticità, oggi gli strumenti per certificare la reale provenienza di una fotografia possono (dovrebbero) essere una priorità. Smetterla di parlare per partito preso, per slogan, per impostazione, per bias. Se si vuole “combattere” la potenziale falsità, non basta dire “non bisogna usare/accettare l’AI”, ma bisogna garantire che le immagini che si producono (fotograficamente) siano certificate, vere, non manipolate, o accettando di mostrare “il trucco” usato con Photoshop o altro. Se non siete disposti a gettare la maschera e parlare di “sincerità”, allora forse bisognerebbe non esprimersi in nome della “realtà”.
Se si vuole trasmettere qualcosa di spessore, bisogna smettere di cercare nella “provenienza” il significato. Pensiamo al messaggio, al valore, all’utilità di quello che si vuole trasmettere, e facciamo in modo di usare lo strumento che reputiamo più adeguato per ottenere il migliore risultato possibile (dove per “risultato” intendiamo: il messaggio arriva o no?)
Se vogliamo puntare sulla creatività e sull’estetica, accettiamo che entrambe queste componenti sono soggettive, e che nessuno “ha ragione”. Esiste poi un mercato, disposto a comprare il frutto di queste scelte soggettive: se la nostra priorità è quella di accontentare il mercato, dovremo fare prodotti che “il mercato gradisce” in larga percentuale. Se invece, da creativi, vogliamo privilegiare “il nostro modo di raccontare/immaginare/creare”, allora dovremo andare a cercare quella nicchia di mercato con cui condividere questa preferenza.
Perché non tutte le fotografie devono essere delle prove. Alcune servono a raccontare, a emozionare, a farci immaginare, e ogni strumento creativo o tecnico andrà bene, ovviamente anche e soprattutto l’AI. Ma se la fotografia deve dimostrare un fatto — allora no: deve essere vera, e poterlo dimostrare davvero diventa prioritario.
In futuro, il valore della fotografia non sarà tanto nell’estetica o nella tecnica, ma nella sua capacità di garantire fiducia. Di dire: sì, questo è successo. E possiamo provarlo. Questa prova potrebbe mettere davanti a tutti la prova stessa e meno estetica e creatività, e il ruolo è quello di proporre, promuovere, stimolare, vendere questa autorevolezza.