

Scopra di più da Sunday Jumper
La fotografia ha bisogno di parole per fare un salto di qualità
L'esigenza di dare un futuro alla fotografia, per competere con l'intelligenza artificiale mette in luce un tema che non può più essere tralasciato: il significato di quello che vogliamo trasmettere
Generated by Jumper w/Midjourney
Si dice che una fotografia (o un’immagine, più genericamente) può valere quanto 1000 parole, ma poi chissà se è vero? Scherzando, diciamo sempre che questa è una funzione e un automatismo che non è stato ancora implementato nelle attrezzature, per quanto tecnologicamente avanzate. Peccato, perché, alla base del linguaggio e della comunicazione, quello che conta è quello che si “vuole dire”, ma ancor più quello che si riesce a trasmettere alle persone alle quali ci rivolgiamo.
Troppo spesso, si pensa per immagini, ma non si comunica correttamente attraverso queste, si rimane in una superficie che è legata all’estetica, al “semplice” potere attrattivo, alla capacità di arrivare a destinazione. Siamo sempre più utenti e fruitori di immagini, usiamo sempre più canali di comunicazione e di interazione che si basano sulle immagini, ma poi siamo davvero capaci di usare l’immagine per “dire” quello che, in profondità, vogliamo trasmettere? Diamo un’occhiata su Instagram, ma anche su TikTok, per accorgerci che non è così, quasi mai; usiamo motori di ricerca che sempre più sono visuali, come per esempio Pinterest, ma poi quello che facciamo è procedere in modo irregolare ed impreciso. Il lavoro dei creatori di immagini è influenzato sempre più dagli algoritmi che permettono di indicizzare il nostro lavoro, ma cosa ne sappiamo noi di algoritmi, non abbiamo ancora nemmeno imparato a catalogare il nostro lavoro negli archivi personali, figuriamoci se siamo in grado di farlo in quelli pubblici?
Dietro un’immagine c’è un potenziale incredibile, ma ci limitiamo (quasi tutti, quasi sempre) ad usarne solo una percentuale minima. Ma non funziona così per la tecnologia digitale, che invece è sempre più capace di “analizzare” ogni pixel del nostro contenuto visuale e - via via - diventa sempre più esperta, superando in “competenza” chi invece le immagini le produce, e rischia di ridursi a mero esecutore di una cultura che rischia di impoverirsi. Davvero, il rischio è che chi produce immagini perderà il controllo dell’immagine stessa, del suo mercato, del suo linguaggio se non inizierà a cambiare atteggiamento: meno dedicato agli aspetti superficiali e più desideroso di capire cosa effettivamente trasmette e descrive un’immagine, guardando ogni dettaglio, perché ogni dettaglio diventa un’impronta, un contenuto, e più sarà approfondita la capacità di analisi, più sarà possibile comunicare con precisione.
Inutile dire che l’esigenza è sempre più pressante da quando l'intelligenza artificiale generativa ha messo - in un istante - in discussione tutto quello che finora ha rappresentato la sostanza e la forma della fotografia. Una bella foto, molto spesso, era “bella” perché c’era una bella ragazza davanti all’obiettivo (o un bel ragazzo, ovviamente…), oppure funzionava perché era scattata in una location esotica davvero bellissima, o ancora era una questione di un buon equilibrio di luce, ombre, inquadratura, o ancora magari il valore arrivava dall’uso raffinato di un’ottica o di una attrezzatura particolarmente indovinata (che magari solo pochi si potevano permettere). E poi, invece, nei musei e negli ambiti più “colti”, in molti hanno passato ore a discutere del perché immagini magari semplici riuscissero invece a raccontare così tanto. A parole, comprendevano in molti (e difendevano) che il contenuto era il messaggio e la sua intensità, nella pratica poi in tanti tornavano a prendere in mano la propria fotocamera e inserire in quegli scatti un bel viso, un bel corpo, un bel paesaggio, un bell’effetto di sfocatura…
Oggi, bastano due righe di descrizione, un “prompt”, ed è tutto fatto, o almeno questo è quello che si pensa, è quello che pensano coloro che si sentono sopraffatti dalla semplicità richiesta per creare immagini spettacolari: senza pagare modelle/i, senza fare viaggi esotici, senza comprare tutte le attrezzature più costose del mondo. Non è così, assolutamente non è così, ma si sta usando la stessa metrica superficiale: quella di guardare solo in superficie, di accontentarsi di quello che arriva “in automatico”, di quella ricetta che, alla fine, è “buona a sufficienza”. In cucina si dice che anche la suola di una scarpa, se impanata, è buona… Anche questo non è vero… ma se si è di bocca buona così sembra.
Oggi, il “cosa dire” e perché dirlo, quali sono gli effetti di questo messaggio, come viene percepito, come raggiunge il destinatario diventa la chiave più importante di tutto il processo creativo e comunicativo: per farlo bisogna affidarsi ad una scienza che è sempre stata per noi fondamentale, la Semiotica, ovvero:
“la scienza generale dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si riproduce un oggetto comunque simbolico”.
Invece che accontentarsi del “bello” o del “funzionale”, bisogna lavorare sul segno e in un’immagine complessa questa descrizione è davvero altrettanto complessa. Ogni sfumatura di un’immagine che “funziona” ha, al suo interno, questi ingredienti, che vanno decodificati e che forse non sono così ovvii. Abbiamo trovato un tool che fa, esattamente, questo: si chiama SceneX e si può utilizzare direttamente a questo [LINK]. L’iscrizione è gratuita e garantisce la possibilità di fare diversi test, per poi eventualmente acquistare più crediti, a partire da 9,99 dollari al mese per avere 100 crediti (ma si possono acquistare pacchetti maggiori oppure solo un certo numero di crediti senza dover accettare un abbonamento mensile).
Il funzionamento è semplice: si carica un’immagine e si possono indicare parecchi parametri, come si vede qui sotto:
In pratica, quindi, si può usare questo sistema per iniziare sia ad analizzare il contenuto di un’immagine, sia per iniziare a decodificare e provare a separare quello che “si vede” da quello “che si descrive”, ed iniziare anche a costruire un’esperienza di narrazione che permetterà sia di immaginare (creare, progettare, scattare…) immagini che includono più dettagli e significati, sia per iniziare a “parlare” con delle macchine (non fotografiche, loro non ci ascoltano… è questo il grande limite, al momento) che hanno raccolto miliardi di ingredienti e sfumature, che possono manipolare ed integrare sulla base delle nostre richieste. Siamo noi che facciamo (e faremo) la ricetta, ma dobbiamo capire quali sono gli ingredienti che ci servono davvero, sia per ottenere un’immagine “giusta”, sia - ancor di più - un’immagine che ha tanto da dire, tantissimo da dire. Buon allenamento, nel frattempo noi abbiamo potenziato questo allenamento, e abbiamo deciso di partire da un’immagine che ci ha proposto, come ingredienti, questa descrizione:
La fotografia ritrae una donna che salta in un tunnel sotterraneo. Indossa una felpa corta nera e jeans, con i capelli raccolti in una coda di cavallo. La scena è dinamica, con la donna catturata mentre salta, il corpo inarcato verso la telecamera. Lo sfondo è sfocato, suggerendo movimento e velocità. In primo piano c'è un primo piano dei piedi della donna in scarpe da ginnastica bianche, a sottolineare l'atletismo della scena. L'atmosfera generale è energica e giovanile, con l'esuberanza della donna in contrasto con l'ambiente oscuro.
che poi abbiamo usato per descrivere (modificando il prompt, rafforzandolo, interpretandolo ulteriormente), delle immagini che abbiamo creato con l’intelligenza artificiale. Ci sono molti percorsi da scoprire, da fare propri, da inventare, da imparare ad indossare per creare il proprio metodo, il proprio stile, sviluppare le proprie idee. Di questo parleremo, con ampio dettaglio, esplorando sempre novità ed evoluzioni (tecnologiche ma anche “di pensiero”), sulla rivista che stiamo realizzando. Abbiamo anche un nome, magari settimana prossima ve lo sveliamo ;-)