Media da collezionare o da dimenticare?
I Media tradizionali perdono i colpi, e anche quando riescono a trovare dei contenuti di qualità li usano in modo vecchio, sfruttandoli al minimo e confezionandoli per i "soliti" pochi che li seguono.
La storia inizia ieri, sabato 4 giugno, passando da un’edicola un po’ sgangherata e leggendo un cartello ad altezza scarpe, proposto con una tipografia grezza e priva di fascino, che dichiara questo (la foto è buona testimone del quanto triste, privo di cura e di valore è la forma di comunicazione usata):
Entro, perché trattasi di una di quelle edicole dove si entra, e compro (vi risparmio la storiella goffa dell’interazione con l’edicolante, purtroppo le edicole - eccezioni escluse - sono ancora luoghi dove chi vende i giornali e le riviste sa effettivamente cosa sta vendendo e dimostra passione per questo mondo), torno a casa e cerco nel malloppo degli inserti le pagine - molti stampati su carta patinata - dedicate al servizio del famoso ed apprezzatissimo fotoreporter Paolo Pellegrin, che invece sono su carta di giornale, stampate con quella che possiamo definire appunto “carta di giornale”. Noi conosciamo bene cosa significa vedere delle stampe fine art di un fotoreporter di questa fama e di questa sensibilità: il potere dei neri intensi, i bianchi che illuminano la scena, le sfumature infinite di dettagli… tutto questo, nell’inserto da “collezione” di Repubblica non c’è, la carta di pregio a colori usata per riprodurre le preziose (per il giornale) pubblicità dell’inserto D o D Casa (non importa che quelle di questo documento di Pellegrin siano foto in bianco e nero, un conto è stampare comunque a colori, in quadricromia anche foto in bianco e nero, per non dire con più toni di grigio per riproporre anche nella riproduzione offset quell’intensità che c’è nelle immagini di partenza; un conto è lavorare con una resa solo di nero slavato privo di alcun rispetto e cura). Conosciamo bene i meccanismi economici dei giornali, specialmente cartacei, ma definire da “collezione” un inserto stampato male, su una carta che già domani si rovinerà se non mantenuta a temperatura ed umidità controllate, in contenitori senza sostanze chimiche, al riparo dall’aria… beh… forse è fuori luogo.
In realtà, questo è un tassello per parlare di qualcosa di più ampio, su cui tutti dovremmo interrogarci. La domanda è:
Ma i “media” tradizionali hanno ancora senso?
La risposta è, nella maggior parte dei casi, no, e quando invece è “si” vuol dire che sono stati creati i presupposti evolutivi necessari per traghettare un approccio tradizionale/storico dei media in qualcosa di innovativo, di molto curato e che possa rispondere alle esigenze contemporanee, che a volte sono anche quelle di nicchia, ma di altissima qualità (inutile dire che nel caso de La Repubblica è invece un valore che viene disperso).
Facciamo degli esempi che fanno capire che i problemi non sono solo di chi ha dei media tradizionali, perché l’invecchiamento può essere anche repentino. Per esempio, da qualche settimana si sta parlando della “crisi” di Netflix, una perdita di “soli” 200 mila abbonati nel primo trimestre 2022 (su un totale di 210 milioni, dato rilevato lo scorso anno che porta ad una percentuale davvero minuscola sul totale) e si punta il dito sulla perdita di qualità globale, primariamente, non a caso Netflix ha dichiarato di recente che invece che spingere sulla quantità punterà sulla qualità, raddoppiando i budget per i progetti e dimezzando però i titoli prodotti. Ma i più attenti cronisti ed analisti, stanno mostrando un altro lato, che è molto più difficile da affrontare per una realtà come Netflix: la concorrenza con altre piattaforme di intrattenimento, come per esempio TikTok. Un articolo davvero molto interessante ha messo in evidenza e a confronto queste due grandi realtà mostrando come negli anni per esempio le entrate, pur crescendo da entrambe le parti, mostrano quanto sia crescita Bytedance (la società a capo di TikTok) superando già a partire dal 2020 Netflix, con una progressione che sembra inarrestabile.
Questo ha portato ad una valutazione che è davvero impressionante: sei mesi fa Netflix valeva più di 300 miliardi di dollari, oggi, a causa della sua “crisi” vale “solo” 80 miliardi di dollari. Al contrario ByteDance è cresciuta e oggi viene valutata più di Netflix di sei mesi fa (e moltissimo di più rispetto ad oggi), esattamente 360 miliardi di dollari. Proseguendo su questo confronto, il lato più interessante forse per i nostri lettori, e di conseguenza anche il collegamento che abbiamo fatto con Repubblica e Pellegrin, è che mentre Netflix investirà 17 miliardi di dollari in contenuti, TikTok produce i suoi contenuti sostanzialmente a costo zero (sono i “creator” a crearli), a parte le minuscole revenues concesse ai creatori e all’esiguo fondo di 200 milioni di dollari che è stato creato.
Cambiamo campo, e andiamo all’evento mediatico di queste settimane, ovvero al processo Depp-Heard, che ha catalizzato l’interesse di un larghissimo numero di persone, visto che unisce elementi che sono di sicura attrattiva: il gossip, le relazioni sentimentali che diventano “guerre”, i personaggi famosi, la questione dei maltrattamenti domestici, il #Metoo, eccetera. Ne avrete sentito parlare, avrete forse seguito trasmissioni televisive che ne hanno raccontato gli sviluppi, ma il vero campo della battaglia sono stati i social. In un articolo del sempre attento e profondo Antonio Dini, c’è una analisi che vi consigliamo di leggere, da cui estrapoliamo questa citazione:
[…] il processo Depp-Heard ha offerto così uno sguardo potenziale al nostro futuro ecosistema dei media, in cui i creatori di contenuti fungono da personalità che danno notizie a un numero crescente di spettatori e, a loro volta, definiscono la narrativa online attorno ai principali eventi. Quei creatori possono anche portare grandi profitti personali, guadagnando dall’engagement del loro pubblico e da altre forme di remunerazione (da Patreon in su, per intendersi).
In questo nuovo panorama, ogni grande evento di cronaca diventa un’opportunità per accumulare follower, denaro e influenza. E il processo Depp-Heard ha mostrato come l’ecosistema di notizie guidato dai creatori può influenzare l’opinione pubblica sulla base degli incentivi delle piattaforme su cui agiscono. […]
Unendo i puntini, come ci piace fare ed anche provare ad insegnare agli studenti che seguono i nostri corsi negli anni, proviamo a vedere il pensiero di fondo: i grandi media (di informazione o anche di intrattenimento, come Netflix") hanno approcci che, pur ancora funzionali, mostrano delle crepe e delle criticità, il pubblico si sta spostando da alcune abitudini consolidate da decenni su altre piattaforme. In questo articolo che segnala le 9 cose che non esisteranno più tra venti anni, al secondo posto, dopo i “contanti” ci sono i giornali cartacei, ma non serve pensare ad un futuro lontano per capire che quella dei giornali è un’abitudine che già adesso è scomparsa per tantissime generazioni di persone (così come i CD, i libretti degli assegni, i dizionari cartacei, tutte cose che ci sembrano sparite da tanto, forse l’idea delle cose che spariranno tra venti anni era anche carina, lo sviluppo molto poco convincente).
Oggi, grandi realtà in grado di realizzare contenuti di grande qualità, e penso a Magnum Photo Contrasto che firma le immagini di Paolo Pellegrin, non potrebbero smettere di sottostare ad accordi di distribuzione vecchi e limitati come i “giornali” e proporre, invece, nuovi modelli di business e di entrate che si basano sul cambiare i media? Se il documento visivo di Pellegrin sui 100 giorni della guerra fosse stato un prodotto PENSATO, PROGETTATO e poi distribuito in digitale, su canali in grado di raggiungere non i 133 mila lettori de La Repubblica (giornale che nell’ultimo anno, a causa di una serie di vicende, ha visto scendere il proprio numero di lettori in modo sensibile, se volete un articolo che ne parla lo trovate qui), ma i 1.6 miliardi di utenti su TikTok, o ancor meglio creando una propria piattaforma su cui costruire un pubblico da fidelizzare e da far crescere, non potrebbe svolgere un ruolo più contemporaneo e anche più promettente nei confronti del futuro? Non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello qualitativo (sullo schermo le immagini di Pellegrin avrebbero ottenuto una resa di contrasti e di dettagli nettamente superiore) e anche da quello sociale: un fotoreporter che racconta una storia con immagini di grande valore su un tema complesso e socialmente importante come la narrazione di una guerra, non vorrebbe che si possa raggiungere, condizionare, far riflettere più persone possibili?
Possibile che questi ragionamenti vengono fatti solo da chi “non ha nulla da perdere”, ovvero influencer e creators che però riescono a “bucare lo schermo”, e a guadagnare attenzione e risorse solo perché non devono difendere delle abitudini e dei percorsi che sono stati “leggendari” ma che oggi non influiscono in nulla o in quasi nulla sull’opinione delle persone, il vero cambiamento, le sensibilità collettive?
Perché non raccontare, trovando le formule giuste, storie come quelle che abbiamo visto in questo inserto “da conservare che nessuno conserverà”, dando una dimensione nuova, sia editoriale che di fruizione che possa davvero aprire nuovi approcci, uscendo da questo circolo vizioso? Possiamo credere che il mondo dell’informazione è dove le persone si informano, e non nelle stanze ormai disabitate dei media tradizionali? Oppure, se davvero vogliamo salvare - come sarebbe giusto - questi mondi tradizionali che tanto hanno fatto per la cultura e l’informazione, possiamo sperare che proprio stimolati o provocati da questi cambiamenti che li mettono all’angolo, possano trovare nuove formule che diano un vero valore a quello che è un’informazione di qualità? Perché si, sul sito di Repubblica, c’è un longform che mostra le immagini e le storie di questo speciale, lo trovate qui, ma ancora una volta è una formula vecchia, le foto si alternano senza creare un vero storytelling digitale, che possa entusiasmare, che possa ridisegnare i confini, il ruolo, le aspettative, l’immersione esperienziale. Lo hanno fatto, in molti, perché siamo ancora così fermi?
Arriveremo a vedere sparire pezzi di storia per poi scrivere che il mondo è uno schifo, che tutto è ormai perso, che la qualità non trova più spazio? Oppure si può lavorare trovando risposte, cambiando gli approcci, trovando nuovi entusiasmi e nuove risorse? Siamo in un’era in cui possiamo davvero reinventare tutto, ma non è certo semplice, ma è meglio la strada di una agonia che non è lenta, bensì veloce ed inevitabile? I numeri, gli esempi, le evoluzioni parlano chiaro.
Ora la palla passa ai creatori di contenuti, che hanno tante occasioni e idee per diventare dei media, o ai gruppi che hanno fatto molto nel passato e che ora devono uscire dalla loro comfort zone per pensare non solo a come far vivere l’informazione di qualità, ma anche a come diffonderla al maggior numero di persone, che invece finiscono con l’avere a disposizione solo il peggio, e in grande quantità; un peggio che condiziona le loro scelte e vite, e di conseguenza anche le nostre.
NOVITÀ!
Da questo numero, in fondo al Sunday Jumper troverete una raccolta di link interessanti che abbiamo scovato e che da ora condividiamo con voi, commentandoli ed enfatizzando il lato interessante di quanto segnaliamo. Ecco a voi il “Weekly Jumper”, da oggi parte integrante di questa newsletter.
Sull’immagine
Gli smartphone scatteranno fotografie migliori delle reflex a partire dal 2024. Non lo dice una persona qualsiasi, ma iL CEO di Sony, che è l’unica azienda a vantare una leadership sia nel comparto fotocamere (anche se non vengono citate le mirorrless ma “le reflex” che Sony non produce direttamente) che negli smartphone. Un parere quindi rilevante, da leggere. [Link]
Un’impugnatura magnetica per tutti o quasi gli smartphone, nata per scattare foto con maggiore comodità. E con molti accessori che ne potenziano l’uso. Sì, se ne sono viste parecchie negli anni, ma questa sembra più interessante. Su Kickstarter. [Link]
Sulla comunicazione digitale
Women in Type è un progetto di ricerca triennale intrapreso dal dipartimento di Tipografia e Comunicazione Grafica dell'Università di Reading tra marzo 2018 e novembre 2021. È interessante e vi consigliamo di farci un giro. [Link]
Framer è una delle famose soluzioni, anche se negli ultimi anni un po’ appannata dalla impressionante crescita di Figma, per disegnare e prototipare siti e app. Nella sua recente evoluzione, si sposta (o meglio si amplia) la visione di questo tool che ora consente di arrivare direttamente alla pubblicazione di un sito, proponendo anche soluzioni gratuite e “hostate” sui propri server, ad una piccola cifra al mese consente anche di utilizzare il dominio personale. Dateci un’occhiata. [Link]
Il futuro della UX (User Experience) è multisensoriale, un articolo interessante, letto su Linkedin. Interessante anche che usa la piattaforma per creare newsletter dello stesso Linkedin, a cui ci si può iscrivere (come per una newsletter) e che allarga la visione di questo strumento sempre più importante nel mondo dell’informazione. [Link]
Sull’Editoria
Un’intervista che parla delle riviste di “carta” come l’unico media che non può essere hackerato. [Link]
Roger Lynch, l'amministratore delegato di Condé Nast - la grande multinazionale editoriale che pubblica, tra gli altri,Vogue, Vanity Fair, Wired, il New Yorker, ha spiegato in un podcast in cui è stato intervistato che la sua "non è più un'azienda di riviste", e che il suo business è altrove anche se le riviste di carta rimangono preziose per la promozione di questo business: «Abbiamo circa 70 milioni di persone che leggono i nostri magazine, ma ce ne sono 300 milioni che interagiscono con i nostri siti web e 450 milioni con cui abbiamo a che fare sui social network. Il nostro pubblico ci sta già dicendo che [i giornali] non sono il luogo in cui si relazionano con noi. Questo è ormai chiaro da un pezzo, direi».
Nel 2021 Condé Nast è tornata in attivo, e Lynch dice che un quarto dei ricavi oggi arriva da attività digitali: l'obiettivo è portarli a essere un terzo nei prossimi quattro anni, compensando le perdite della pubblicità su carta. L’articolo lo trovate qui: [Link]
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