Non basta un martello a meno che il tuo problema non sia solo un chiodo
Troppo spesso i creativi cercano risposte negli strumenti, ma nell'era di algoritmi e AI, dove tutto è già stato immagazzinato nella "mente" delle piattaforme, essere umani richiede ben di più
Qualche giorno fa, il 30 novembre, si “festeggiava” un anno dalla presentazione al mondo di ChatGPT, il fenomeno che ha fatto esplodere l’era dell’Intelligenza Artificiale, con una velocità impressionante e inaudita finora: un milione di utenti in soli 5 giorni e 100 milioni di utenti attivi al mese in poco più di un mese dal suo lancio, diventando di fatto la piattaforma con la crescita più veloce di sempre.
Noi (e voi) che, qui in questo spazio, ci preoccupiamo più di immagine, e questa rivoluzione dell’AI l’abbiamo vissuta più legata ad ambiti come Midjourney, Stable Diffusion, Dall-E eccetera, non possiamo non considerare con sufficiente attenzione ciò che ha trainato la rivoluzione, quindi ChatGPT, e forse vale la pena fare delle connessioni tra questa rivoluzione e il nostro lavoro, in generale, e ancor di più dell’evoluzione che dobbiamo prevedere (e gestire) come esseri umani.
Sì, perché se è normale per “noi” - creativi dell’immagine - pensare sempre in termini visuali, dobbiamo confrontarci con il fatto che per sognare, progettare, immaginare e poi produrre immagini, abbiamo bisogno di ispirazione in termini più ampi e non solo in quello che è direttamente legato all’immagine, e ancor di più va detto che se proprio c’è una componente che potrà garantirci un futuro, come esseri umani in ambito professionale e umano, questa sarà proprio la capacità di ispirarci. Sempre meno l’eseguire (la tecnica, gli strumenti, le “skill” artigianali), e sempre di più il pensare, e quindi il trovare sempre nuove strade originali, esclusive, uniche. Per riuscirci, dobbiamo forse riflettere proprio sul nostro essere creativi, sul come cercare queste sempre nuove strade, sul come differenziarci dagli altri. E dobbiamo quindi cambiare il nostro atteggiamento, individuando nuovi percorsi.
Lo psicologo Abraham Maslow disse:
Se hai un martello... allora tutto quello che vedrai è un chiodo.
Quante volte questo approccio ci ha portato e ci porta a pensare sempre nella stessa direzione? Nel mestiere creativo, se bisogna scattare delle fotografie si pensa e si prende una fotocamera, se bisogna fare grafica, si apre Illustrator o Photoshop. Ma, ancor peggio, se si ha davanti un foglio bianco, si cercano fogli già “riempiti” da altri, per cercare spasmodicamente quella che viene chiamata “ispirazione” ma è spesso il cercare idee di altri per sopperire e riempire il nostro vuoto.
In un bellissimo articolo, firmato da Minnie Bredouw [LINK], all’interno dello spazio gestito internamente da Pinterest (quella che viene proprio definita in gergo “la casa dell’ispirazione”) dove si trovano pensieri a voce alta legate alle riflessioni che portano spesso alle scelte ed alle strategie della stessa piattaforma, leggiamo:
La vita ci richiede spesso di elaborare informazioni e reagire immediatamente - come quando si guida, si lavora o ci si prende cura di un familiare, per esempio. Tuttavia, il processo di ispirazione si sviluppa stando aperti all'ignoto. Entrare in questo stato mentale potrebbe significare rallentare, guardarsi intorno e resistere all'istinto naturale di trasformare l'esperienza in giudizio.
Ma questo nostro annichilimento creativo, da dove arriva? Qualcuno, probabilmente con ragione, parla di colpa della tecnologia, o quantomeno delle abitudini dell’essere umano di cercare risposte preconfezionate, invece che far lavorare il nostro cervello e fargli fare fatica (pensare, immaginare è faticoso, specialmente quando dobbiamo farlo per lavoro). Questo errore non è nuovo, nella sua applicazione umana: nel 2011, i ricercatori di Harvard hanno coniato il termine "Effetto Google" quando hanno scoperto che, quando ci troviamo di fronte a una domanda difficile o a un problema (per esempio un’idea creativa), invece di sapere come rispondere da soli, siamo invece molto bravi a sapere dove trovare la risposta: il nostro affidabile strumento di ricerca, Google. Google ovviamente può essere anche sostituito e integrato da Instagram, da TikTok, da Behance, dal già citato Pinterest (la casa dell’ispirazione...) o da qualsiasi altra piattaforma. L’effetto è quello che, sempre più, anziché puntare al trattenere nella nostra mente qualsiasi informazione in qualsiasi momento, stiamo trasferendo la nostra capacità di ritenzione e memoria alle piattaforme, siano questi motori di ricerca o social. Per arrivare all’assurdo che potremo addirittura trasferire a strumenti e piattaforme tecnologiche la memoria della nostra vita e delle nostre relazioni. Dove finirà l’umanità?
Gli studiosi consigliano delle azioni pratiche per ridurre questo effetto, e in parte “fermare la tecnologia dannosa” (che non è mai rappresentata dalla tecnologia in sé, ma dalla nostra incapacità di gestirla):
1) Mettete al lavoro il vostro cervello, creando un’abitudine ad accettare di rallentare la nostra gratificazione immediata (quella che genera dopamina, che è la sostanza che più ci da’ piacere e dalla quale siamo sempre più dipendenti)
2) Compensate il danno, rimanendo attivi per un numero di ore simili a quelle che dedichiamo all’immersione nell’universo dello smartphone, riallineando il nostro cervello e portarlo a processare nuovamente informazioni e non solo ad assorbirle passivamente. Guardare una mostra d’arte, imparare a suonare uno strumento musicale, giocare a scacchi.
Sono abitudini che sono obbligatorie oggi, non solo a causa degli effetti dei social sulla nostra mente, ma perché appunto - come dicevamo all’inizio - oggi il nostro futuro di esseri umani è e sarà sempre più condizionato (e per certi versi, anche messo in pericolo) dallo tsunami dell’AI. Il nostro potere cognitivo deve tornare a svilupparsi ed evolversi, altrimenti rischiamo di essere sopraffatti dall’intelligenza artificiale che, lei sì, continua a progredire.
Sembra sempre più chiaro, per esempio, che la “telenovela” che ha riguardato il licenziamento (e poi la rientrata) del management di OpenAI è stata legata alla preoccupazione del board (che ha proprio per questo, o così sembra, licenziato il CEO e figura simbolo Sam Altman e altri importanti personaggi che hanno fondato e governato l’azienda) per avere nascosto o minimizzato un’evoluzione della ricerca interna eccessivamente pericolosa e non controllata, a discapito sia dell’etica no profit della società, ma anche per l’umanità stessa. In questa nota di Reuters si accenna a questa questione.
Un modo per riattivare la nostra capacità cognitiva, però, e forse qualcuno penserà possa essere un assurdo, trova proprio una risposta nella stessa AI, che permette di diventare un utile partner degli esseri umani, per comprendere, ricercare, studiare, estrarre e immaginare con maggiore originalità, esclusività, efficacia quello che gli stessi umani trovano difficile manifestare.
A questo ruolo di “compagno/a” dell’AI per ritrovare di più la nostra umanità stiamo dedicando la cover story e il “fil rouge” del numero due di Aiway Magazine, in uscita tra poco. Se siete abbonati, lo avrete a disposizione tra breve, vi aiuterà a riflettere e anche a trovare un giusto e necessario equilibrio, se non siete abbonati è una buona occasione per abbonarvi ora, a questo LINK ;-)