Perché i creativi dell'immagine combattono l'AI, e gli scrittori no?
I creativi del settore visuale sono spaventati e arrabbiati con l'AI e altri, come gli scrittori, no. Per fortuna, il futuro arriva per farci capire meglio anche chi siamo e come essere migliori.
Immagine realizzata con MidJourney da Jumper/2023
Sono anni che si parla di intelligenza artificiale, tema che ha riempito centinaia di libri scientifici e di ricerca (alcuni più meritevoli di altri, ne abbiamo letti diversi), e specialmente sul lato della fantasia altrettanti libri, film e serie tv, ma la tematica è esplosa nell’ultimo anno, forse addirittura negli ultimi 4/6 mesi, perché è atterrata nella realtà di tutti noi, attaccando proprio quel settore che sembrava quello “meno attaccabile”: quello della creatività. Da sempre, la domanda legata all’AI è stata: mi ruberà il lavoro?
La risposta, da subito, ha alternato pensieri preoccupati o creato effetto di fare spallucce con disinteresse, ma quasi sempre è apparsa evidente in tutte le persone una sicurezza: quella che diceva che, semmai, questa sostituzione tra umani e macchine avrebbe potuto coinvolgere il lato produttivo, non quello dell’intelletto, non quello della creatività. E, invece, mentre i processi industriali ed aziendali hanno integrato da anni sistemi di automazione che sempre più fanno uso di AI, sono ora esplosi i sistemi di intelligenza artificiale generativa che, con una qualità e concretezza impressionanti, hanno iniziato a produrre “opere creative”: fotografie, video, poesie, musica, articoli, pagine di codice informatico; con un solo click, o con poche parole “messe in fila”. Chiunque abbia sperimentato - o anche solo sentito parlare - di questa innovazione, non può non avere sentito un blocco allo stomaco, e immediatamente o dopo quel tempo necessario per digerire la scoperta, si sarà domandato proprio quanto manca all’essere sostituito, lasciato a casa, non chiamato per svolgere i lavori che finora sono stati al centro del proprio guadagno/fatturato?
Su questo tema ci sarebbe da discutere, e tanto. e questo tanto discutere non potrà che esplodere - per quello che ci riguarda - in qualche dialogo e momento di discussione più ampio. Proprio oggi, però, siamo incappati in rete in una discussione interessante che pensiamo sia utile affrontare anche qui e in questo momento e che si aggiunge ad altri macigni (uno si chiama “fair use” che ci sta occupando buona parte della nostra testa, in questo momento, che volevamo trattare oggi ma che ci accorgiamo che richiede più spazio e più impegno). La discussione di oggi porta ad un quesito che - più che a parlare di di AI - ci permette di capire meglio quello che governa il mondo della produzione dell’immagine a prescindere dalle innovazioni attuali: perché chi si occupa di immagine è più spaventato dall’ipotesi di perdere lavoro a causa dell’AI, mentre questo preoccupa meno chi invece scrive testi?
Abbiamo visto, in questi mesi, reazioni anche molto violente da parte di creativi, delle loro associazioni, delle aziende che si occupano di archivi di immagini, contro l’uso dei dataset che scandagliano tutto il capitale accessibile del “visuale” per istruire le AI e consentire loro di creare nuove immagini, e non ci risulta invece la stessa violenza, discussione e aggregazione di chi scrive (scrittori, sceneggiatori, poeti, giornalisti). Eppure, a ben vedere, ChatGPT è molto più devastante nei suoi effetti globali perché molto più vicino ad applicazioni professionali che possono sostituire l’umano in molti lavori, eppure sembra “spaventare meno” rispetto ai sistemi che generano immagini. Avete letto qualcuno che ha polemizzato che possono essere creati dei testi che hanno “il sapore” e “lo stile” di Shakespeare o di Fabio Volo (scusate il parallelo, LOL)? No, non ci sembra, e invece tantissimi fotografi, illustratori, artisti hanno urlato allo scandalo.
Il problema è che un testo è più legato ad un’oggettività basata sul “giusto” o “sbagliato”. Se - come succede, tantissimo - ChatGPT pur scrivendo con un tono del tutto credibile nel tono e nella forma, può scrivere delle cose evidentemente sbagliate per tutti (o quasi tutti), chi può essere certo che un’immagine è “sbagliata”? o “giusta”?
Di colpo, ci accorgiamo di quanto siano vuote e inutili tutte le discussioni che stiamo leggendo in questo periodo sul tema, per esempio sulla teorica mancanza di spontaneità dei visi realizzati dall’intelligenza artificiale (abbiamo visto per decenni fotomodelle/i e in generale soggetti totalmente senza espressione, molto meno “umani” di quelle dell’AI attuale, di colpo se ne sono dimenticati tutti?), o su quella che potremmo definire “lana caprina”, evidenti dialoghi privi di concretezza, che non dimostrano forza, ma semmai debolezza. Se bisogna mettere frecce per evidenziare o fiumi di parole per mettere in luce i difetti (teorici, soggettivi) di un’immagine, vuol dire che il “giusto” e lo “sbagliato” non è abbastanza evidente, e questo" “limite” per essere percepito potrebbe trarre giovamento proprio da uno strumento come l’intelligenza artificiale, che mette a nudo la verità e toglie dai nostri piedi tutto il confortevole terreno fatto di teorie umane, che “suonano tanto bene”, ma che poi non corrispondono alla realtà.
Le immagini raramente - per loro natura, anche affascinante, non come limite - hanno un significato inequivocabile, totalmente nitido; un testo invece lascia molto meno spazio, rispetto al vero significato che esprime. Ovvio, si può scrivere in modo poco chiaro, distorto, o ancor peggio subdolo (pensate ai dialoghi scritti per i politici…), ma in generale un testo esprime quello che si intende, e quando non è così si parla di “falso”, di “scorretto”, di “bugia”, mettendo subito in luce negativa la fonte che l’ha dichiarato (a meno che non si tratti di letteratura, di poesia: in questi casi il linguaggio non è necessariamente “trasparente”, anzi).
L’immagine, come abbiamo già detto, è molto meno nitida: anche quando prova ad essere descrittiva e dettagliata, lascia comunque sempre un margine di interpretazione, e certamente questa sensazione si amplia tantissimo quando si esce dalla documentazione di un fatto/evento (che, comunque, ovviamente siamo ormai abituati a guardare con il dubbio della possibile manipolazione digitale, che azzeriamo in questo caso però perché anche il testo può essere manipolato): quando si arriva invece alla creatività, allo stile, all’interpretazione, all’immaginazione… quando davvero si può parlare di “sbaglio”? Questo non è un problema in sé, ma è qualcosa con cui dobbiamo imparare a convivere: un’immagine che per qualcuno è “sbagliata”, potrebbe essere “perfetta” per mille altre persone, e non c’è un parametro univoco per definirne la perfezione. In più, altra considerazione sull’immagine è che un parametro di stile può essere percepito e decodificato da moltissime persone (una fotografia con lo stile di Avedon, un disegno sullo stile di Keith Haring…), ma chissà quante persone sono davvero in grado di individuare in un testo lo stile “simile a Pasolini” o a Giorgio Gaber, o al già citato Shakespeare?
Il futuro, per i professionisti dell’immagine, non è cercare di spiegare quello che, se bisogna spiegarlo, perde di importanza, e ancor meno difendere, tutelare, nascondere qualcosa che è nato per essere “visto” e come tale deve “influenzare”, perché di colpo si perderebbe quello che, invece, è proprio il punto di forza di quello che svolgono. Invece che arroccarsi a cercare di guardarsi le spalle, spaventati, arrabbiati, secondo noi i creativi dell’immagine dovrebbero riflettere su quello che l’intelligenza artificiale ci svela, quello che dice a “noi” del nostro lavoro (e anche del nostro “essere umani” e “creativi”).
Crediamo che uno dei futuri mestieri possibili per chi crea immagini sarà, per esempio, lavorare sul come migliorare questo senso di “giusto” e “sbagliato” sulla comunicazione visuale, che come abbiamo detto rischia sempre più di essere un tallone di Achille che quindi può portare al fatto (pericoloso) che un’immagine non risulta mai poi così “sbagliata” e quindi anche un’alternativa (magari generata da una macchina) non appare inferiore agli occhi delle persone, e ancor più pericoloso agli occhi dei clienti, che alla fine sceglierebbero la soluzione più economica, più flessibile, più veloce (come già succede ora, senza intelligenza artificiale, ma la situazione rischia di peggiorare di molto). Oppure, il giusto approccio per chi si occupa di immagini potrebbe essere di iniziare ad usare l’intelligenza artificiale generativa per capire come le nostre intenzioni, quello che vogliamo davvero dire con un’immagine, si traducono in un corretto (ottimo, perfetto) output; questo approccio può diventare IL percorso che fa crescere il nostro lavoro e la nostra arte di comunicare e raccontare con l’immagine. È uno studio che parte dalla semiotica e che va oltre, ben oltre… specialmente oltre alle discussioni sterili per combattere un futuro che è già qui tra noi.
L’intelligenza artificiale non arriva per “rubare il lavoro”, ma a farci capire quale è il nostro vero lavoro. Chi lo capirà potrà crescere e trarne beneficio, chi non lo capirà probabilmente non ha capito che non basta essere umani per essere intelligenti. Dobbiamo crescere molto, come umani, per competere, vincere ed evolverci nell’era in cui le macchine fanno… e gli umani rischiano solo di borbottare sui bei tempi passati.
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