Quando le storie "inaccessibili" richiedono la post-photography per essere raccontate...
Una provocazione di un grande fotoreporter ha creato importanti discussioni, in cui si è parlato più di "strumenti" che non messaggi. Facciamo un'analisi che passa dalla fotografia al cinema, al'AI...
Immagine generata da Jumper con Midjourney
Oggi vi poniamo delle domande complesse che ci hanno fatto riflettere molto, e probabilmente offrono a tutti l’opportunità di andare a fondo al tema centrale che riguarda la fotografia, d’ora in avanti:
Fare una fotografia, raccontare una storia con un’immagine, con un reportage, prevede l’uso di una fotocamera?
Qual è il rapporto tra l’oggetto che usiamo per esprimerci e la storia che dobbiamo raccontare?
Le risposte sembrano ovvie, o così dovrebbe essere… il ruolo di un fotoreporter, per esempio, è quello di documentare la realtà, di testimoniare un fatto, un evento, qualcosa che “sta succedendo”. Se si perde questo punto di riferimento, assoluto, quindi del catturare qualcosa di “reale”, ci accorgiamo che parleremmo di un altro lavoro, non quello del fotoreporter. Ma dobbiamo anche accettare che non per questo potrebbe essere un “mestiere” meno nobile, e meno efficace, per raccontare una storia: la storia è l’elemento primario.
A dimostrazione di questo, possiamo inserire nella discussione il cinema. Un film che parla di una storia che riguarda persone, eventi, emozioni, se girato ed interpretato bene, non è una forma artistica e creativa che funziona, per raccontarla in modo forte ed efficace,? Un film fa riflettere, riesce a coinvolgere, ci fa vivere da dentro quella situazione? Affondiamo la lama nella ferita: la licenza narrativa che serve per confezionare una storia in modo più forte, è e sarebbe accettabile, se l’obiettivo è quello di raccontare al meglio trama e storia (e, non ultimo, il messaggio)? Eccome, giusto? Potremmo fare una graduatoria che mette più in alto nel valore assoluto i fotoreporter (perché scrivono storie “vere”) rispetto ai registi (perché scrivono con i propri film, storie “costruite”)? No, speriamo di no, possiamo dire che raccontano storie certamente in modo diverso, entrambe efficaci, che a volte è necessario - al fine del raccontare correttamente una storia - usare una strada o l’altra. Quello che conta è definire esattamente quello che si sta facendo: per quanto realistico e attinente ai “fatti”, un film è sempre e comunque un’interpretazione della realtà, un fotoreportage dovrebbe invece essere una testimonianza.
Le persone riprese in un film, anche se premiate da un Oscar, sono comunque interpreti di una storia che qualcuno ha scritto, di una sceneggiatura, di un dialogo che hanno imparato a memoria, di ore ed ore di trucco, di una ripresa che ha richiesto decine di persone, di ore ed ore di prove. Ma raccontano (possono/potrebbero) raccontare una storia vera? Il loro valore è che ci connettono a storie che potrebbero essere anche vere e fedeli, ma che nel momento in cui sono accadute non erano sotto i riflettori e davanti gli obiettivi di una fotocamera o di una telecamera. Se queste storie non sono o non possono essere accessibili quando accadono, tali storie si perdono e dimenticano, oppure si possono adottare strumenti diversi per raccontarli, per creare comunque emozioni, interesse e partecipazione? Il cinema ce lo consente, e allora… cosa distingue un film “costruito” da una costruzione con altri “ingredienti”? Se non può essere “verità” documentata (che richiede una responsabilità e delle regole precise: si deve dire la verità, non si possono usare trucchi o effetti e ritocchi con Photoshop, ci deve essere modo affidabile di verificarne autenticità), possiamo provare a raccontare storie inaccessibili, usando gli strumenti dell’AI?
Non sappiamo se quest’ultima domanda se l’è posta anche Michael Christopher Brown, un fotoreporter che collabora con National Geographic dal 2004, ex fotografo associato Magnum Photos, che ha vinto un Paris Photo Book Award e l'ICP Infinity Award, ha documentato molte storie con le sue fotocamere (quindi ha guadagnato il diritto di poter avere un’opinione e il rispetto nel mondo del fotoreportage), che è passato direttamente all’azione realizzando un progetto denominato 90 Miles. Si tratta di un esperimento di illustrazione post-photography che utilizza l’AI per esplorare eventi storici e realtà della vita cubana che hanno motivato i cubani ad attraversare le 90 miglia di oceano che separano l'Avana dalla Florida. Questo evento, Brown dice che rientra in un contesto di narrazione di “storie non accessibili”, ma non per questo meritevoli di cadere nel silenzio.
In un bell’articolo pubblicato su Blind e scritto da Amber Terranova (anche lei non è certo l’ultima arrivata, visto che è un'esperta direttrice fotografica, educatrice e produttrice visiva con sede tra New York e il New Mexico che ha lavorato come direttore dell'istruzione per Magnum Photos e insegnato presso la School of Visual Arts e l'International Center of Photography), viene discusso questo progetto che ha scatenato le ire dei “tradizionalisti” della fotografia e del fotoreportage, e la Terranova giustamente mette in evidenza questo dettaglio:
Per comprendere correttamente il progetto, credo che sia importante notare che il lavoro non è interamente inventato dalla sua immaginazione, ma deriva da anni di esperienza di lavoro a Cuba combinata con anni di ricerche approfondite e interviste. Di fronte alle limitazioni dell'accesso Michael C. Brown sta esplorando l'IA per aggirare queste limitazioni inerenti al lavoro documentario.
"Nel 2022 Cuba ha vissuto il suo più grande esodo dagli anni '80 a causa di una crisi economica in corso, con un'inflazione in esaurimento insieme alla carenza di cibo e medicine. Mentre ero a Cuba ho sentito storie incredibili di coloro che sono fuggiti negli Stati Uniti. Ho esplorato la documentazione della storia in vari modi mentre ero sul campo, anche se a causa della segretezza e della fiducia necessari per la pianificazione e la partenza da Cuba, ho trovato l'accesso impossibile in quanto qualsiasi documentazione potrebbe aver messo a repentaglio la sicurezza di quelle pianificazioni, imprese o comunque associate all'attraversamento, quindi ho rivisitato questa storia con 90 Miles.
La storia che si racconta è quindi una storia vera, che è stata studiata, approfondita, compresa dal fotoreporter che voleva raccontarla e portarla alla luce, semplicemente non era possibile “documentarla” con la fotografia: avrebbe potuto raccontarla in un film? Sicuramente sì (ma Brown non è un regista), e sarebbe stata - come detto - raccontata comunque con attori (quindi persone “virtuali” se vogliamo definirle così). Cosa cambia se i personaggi sono stati invece generati da un creativo/un fotoreporter di nuova “era” che li immagina, che li dirige e che ha, come strumento di ripresa, un sistema di AI invece che una fotocamera o una telecamera? Per caso Brown ha dichiarato che queste erano “immagini vere”?
Facciamo un altro pensiero parallelo: cosa cambierebbe, se invece che fotografie fossero state disegnate immagini da un illustratore/illustratrice che con ispirazione avrebbe potuto raccontare questa storia? Che tutti avrebbero parlato di una grande narrazione emozionale, sensibile, creativa. Perché la mano capace di disegnare avrebbe fatto la differenza? Che la matita invece che una descrizione della storia da visualizzare l’avrebbe resa più “pura”? Ci accorgiamo che qualcosa non funziona, che appare stonato?
Forse qualcuno potrebbe discutere dello stile, potrebbe dire che non gli piace quella resa dei visi, quelle “inquadrature”, ma ci accorgiamo che si tratterebbe solo di un discorso basato sul gusto, lecito ma personale? Qualcuno potrebbe dire (verrà detto)… che si capisce che NON sono fotografie… bene, vero, specialmente ad un occhio attento, ma chi ha parlato di “fotografia”? Si parla di illustrazioni post-photography, che prendono quindi elementi da entrambi questi mondi, e da molte più sfaccettature. Cosa significa che “non sembrano fotografie?” Sarebbe come dire che un acquarello non è una fotografia, quindi non varrebbe nulla un quadro ad acquarello? Oppure che l’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci non vale nulla perché non è stato disegnato fedelmente e nello stesso momento in cui accadeva? Di cosa stiamo parlando?
Noi ci auguriamo che ci sia un nuovo modo (infiniti nuovi modi) per raccontare storie “irraggiungibili”, come quella raccontata da Brown (che è diventata anche una collezione NFT), perché quello che conta è cosa si vuole raccontare, con le immagini, puntare sull’intensità narrativa, sul messaggio (di cui nessun detrattore parla… il fatto che una storia non raggiungibile da una fotocamera non merita di essere raccontata?).
Qualche tempo fa, mentre riflettevamo sul futuro di questo mondo di immagini generate con AI, ci siamo soffermati su un’immagine, un cartellone in strada che ha catturato la nostra attenzione, perché ci siamo domandati cosa poteva esserci davvero dietro quella storia di un’immagine sicuramente forte ed intensa. Il cartellone era questo:
C’è sicuramente una storia drammatica ed intensa, dietro quel mantello dorato di plastica/metallizzata, che sono quelle “coperte” leggere ma protettive che si usano per prestare soccorso; poi quel biberon, quegli occhi, spaventati e stanchi di una mamma e di un piccolo bambino. È la sintesi di una storia importante, che parla di tutte quelle persone che sono “le ultime arrivate”, che abbiamo bisogno di guardare negli occhi perché i fenomeni come questo sono di solito discussi solo nelle aule dove i governi prendono decisioni nascondendosi da questi sguardi (perché se lo facessero non riuscirebbero a trovare le parole, e ancor meno far seguire le azioni che poi decidono di trasformare in leggi). Guardare le masse da lontano non porta allo stesso risultato emotivo del guardare negli occhi, i singoli, perché una “massa” di persone è fatta di singole persone, ma talvolta è più facile dimenticarselo.
Ci siamo domandati tutto questo, prima ancora di vedere questo progetto di Michael Christopher Brown e senza voler fare alcun confronto o paragone, ma solo dire che il pensiero segue lo stesso percorso. Ci eravamo e ci siamo domandati se altre immagini, generate con l’AI avrebbero potuto ottenere la stessa empatia nell’osservatore, o - ancor di più - pensare al fatto che queste storie potrebbero essere raccontate, più nel dettaglio, e che a volte serve inserire ed usare “ingredienti” che non ci sono, che non sono accessibili, per raccontare una storia che faccia breccia. E abbiamo provato a fare piccole prove, che in nessun modo potremmo definire delle “opere” o che in nessun caso vogliono sostituirsi al lavoro dei fotoreporter che raccontano queste storie con coraggio, con sforzo, con difficoltà e anche con sacrificio. Quello che ci siamo domandati è se quella signora con il suo bambino fosse effettivamente un tassello di “realtà”, di qualcosa che è “reale”, oppure se è un frame di un film o una immagine generata con AI, anche se per noi, sinceramente, non avrebbe nella nostra mente una differenza immensa, se entrambe riescono a colpire al cuore, se porta magari qualcuno a decidere di dedicare la propria quota dell’8xmille (perché a questo serve quell’immagine, e non è un dettaglio, anzi: è un valore).
Riflettete: il valore è in quello che raccontiamo, o come lo raccontiamo?