Quando l'informazione perde credibilità, l'umanità perde sé stessa
Quando tutto può sembrare vero, informare diventa un atto di responsabilità richiesto a tutti noi: sia quando scegliamo i media per informarci, sia quando diventiamo noi stessi media.
La parola “informazione” contiene in sé un atto di fiducia. Informare, nel suo senso originario, è dare forma a qualcosa dentro di noi. Ma che succede quando quella forma vacilla e la fiducia si incrina?
Nel mondo di oggi — un mondo dove le AI generano testi, immagini e video con stupefacente disinvoltura — non è più solo questione di distinguere il vero dal falso. È una questione di contesto, di intenzione, di responsabilità. E non riguarda solo i giornalisti o i media tradizionali, ma tutti noi.
Il recente abbandono del sistema ClaimReview da parte di Google, che permetteva l’evidenziazione automatica del fact-checking nei risultati di ricerca, è solo l’ultimo segnale. In parallelo, Meta ha monetizzato contenuti legati a entità russe sanzionate, lasciando che pagine Facebook affiliate a media di propaganda accedessero a programmi di revenue-sharing. Le piattaforme che dovrebbero filtrare, organizzare e — almeno in teoria — premiare l’informazione attendibile, sembrano aver scelto una strada opposta: quella dell’opacità e della deregolamentazione. In pratica, le piattaforme che possiedono un impero senza fondo (Meta, Google, X-Twitter) hanno capito che possono assolutamente disinteressarsi del fatto che nei loro giardini dorati passano e si propagano false informazioni, porcate di ogni genere, qualsiasi offesa all’umanità e alla società, e quindi trarre anche un immenso risparmio sulle procedure di tutela.
Nel frattempo, l’articolo di The Atlantic “The End of Publishing as We Know It” racconta una crisi sistemica. I modelli di AI generativa, capaci di riassumere (e a volte riscrivere) contenuti tratti da articoli e libri, stanno erodendo traffico, visibilità e sostenibilità economica dei media. Google AI Overviews, ad esempio, ha ridotto di oltre il 34% il traffico verso i siti di notizie. Il rischio, sempre meno teorico, è che le fonti originali scompaiano — e con loro, il giornalismo d’inchiesta, le voci indipendenti, la complessità del racconto.
Ne abbiamo parlato a fondo anche sull’ultimo numero della newsletter di AiwayMagazine, pubblicata in esclusiva per i nostri abbonati, per commentare l’incontro alla Triennale con Ben Smith, uno dei giornalisti più importanti al mondo, invitato da IlPost. Smith ha sottolineato come, nel panorama dell’informazione, il vero problema non siano i falsi clamorosi, ma il fatto che anche il vero non venga più creduto. Non è la disinformazione a spaventarci, ma l’indifferenza alla verità. Una sua frase ci è rimasta impressa:
“Oggi ci aspettiamo che solo il 75% di ciò che leggiamo sia vero — e il restante, lo accettiamo come rumore di fondo. È il “dividendo del bugiardo”, il vantaggio di chi può smentire anche l’evidenza, contando sullo scetticismo diffuso”.
Questo tema Yuval Noah Harari, uno dei più lucidi e profondi scrittori delle tematiche legate all’evoluzione umana, l’ha ampiamente affrontato con chiarezza nel suo libro Nexus, dove mette in discussione l’idea che l’informazione serva principalmente a trasmettere verità. Per Harari, l’informazione serve a creare legami, a costruire coesione — ma a volte lo fa più con miti e narrazioni condivise che con fatti oggettivi. E se queste narrazioni crollano, se non crediamo più nemmeno alle immagini, alle testimonianze, alle parole, ciò che si frantuma non è solo l’informazione: è la possibilità stessa di una società fondata su significati comuni. Come ha scritto: “L’umanità si organizza attorno a reti di informazione che spesso legano più con illusioni che con verità.”
E c’è di più: l’intelligenza artificiale, per suo limite e caratteristica “attuale”, tende a raccontare bugie, non solo perché talvolta sbaglia (tutti i disclaimer lo mettono in evidenza), ma perché la “personalità” verso cui viene istruito il sistema predilige essere accomodante. Se chiediamo a ChatGPT conferma di una nostra opinione, pensiero, teoria, quasi sempre la risposta della “macchina” ci darà ragione. E questo porta a una sicurezza negli utenti — tutti, ma in particolare quelli più fragili e meno strutturati — che alla fine la loro opinione è corretta, e pertanto le altre opinioni saranno di sicuro sbagliate. Contano sempre meno autorevolezza, esperienza, ruolo: in particolare, le nuove generazioni semplicemente non danno valore a nulla se non alla “mia opinione che vale almeno quanto quella degli altri, ma per me ancora di più”. Questa visione, se da un lato positivo riduce o spezza i muri che in passato hanno imposto regole e linee di pensiero magari superate, solo in nome della “maggiore esperienza dei “titolati”, o peggio ancora delle “forze al potere che non devono avere il diritto di determinare il futuro di ciascuno di noi”, manipolando o controllando l’informazione e usandola come un’arma (è questa la teoria di molti, e ovviamente ha grandi esempi veritieri che si possono elencare), dall’altro lato - quello negativo - porta a chiedersi come è possibile che un singolo possa in qualche modo avere voce in capitolo per tematiche quali le decisioni da prendere a livello macroscopico.
Siamo in un’epoca storica in cui servirebbe — più che mai — una saggezza, comprensione, coesione per trovare la migliore soluzione per tutti, e in questo il fatto di essere nell’era dell’informazione doveva darci tutti gli strumenti di valutazione e di analisi necessari. E invece no: il digitale, con i suoi algoritmi, ha gettato fuoco sui movimenti populisti che guardano ogni situazione in termini di estremismo, di banalizzazione, di annullamento delle sfumature, di interesse che vada oltre il singolo. E allora, la cattiva informazione diventa il proiettile per abbattere chiunque non sia della nostra opinione.
La strada per risolvere, limitare, contenere questi danni è quella di puntare sulla possibilità che si apre proprio dentro questa crisi: quella di riscoprire il valore dell’affidabilità. Di non accontentarsi di ciò che ci viene servito con facilità. Di leggere davvero. Di chiedere, ogni volta, sfuggendo alla comoda sintesi e al perentorio giudizio: chi lo dice? Perché? Con quali fonti? È un cambio di passo che possiamo — dobbiamo — intraprendere anche come creativi, professionisti dell’immagine, narratori visivi.
Abbiamo da tempo suggerito una strada: quella della certificazione, dell’impegno etico. Tecnologie come il sistema C2PA, e ora si stanno aggiungendo altre proposte, come quella di Sony che ha proposto i link che garantiscono la veridicità proposti dal sistema Sony Camera Verify: non sono soluzioni totali, ma strumenti di un nuovo patto tra chi crea e chi osserva. Un patto basato sulla trasparenza.
L’informazione non può sopravvivere se considerata un servizio dovuto e gratuito che si dovrebbe basare sul costruire profitto grazie all’insana (e contemporanea) creazione di bolle che isolano, muri che impediscono di guardare oltre, percorsi unicamente dritti, senza prevedere diramazioni, perché questi sistemi (algoritmi) sono nati e si sono sviluppati per sapere più di noi tutti per poi sapere cosa venderci. Non possiamo affidarci solo e sempre a piattaforme fintamente informative, che non informano affatto, semmai preparano pasti preriscaldati da ingoiare senza nemmeno provare ad assaporare. La stessa fotografia non può rimanere credibile se accetta sempre più di essere svuotata della responsabilità di chi la produce. Oggi più che mai, informare è un gesto sociale, politico, relazionale. E lo è anche scegliere di condividere o meno, verificare una notizia, contestualizzare un’immagine.
Non serve il tono tragico: serve uno sguardo vigile. Un’attenzione rinnovata. Un investimento — piccolo, quotidiano — nella verità. Non la verità assoluta (che ci sfugge sempre), ma quella verificabile, onesta, costruita con cura. Perché — in fondo — siamo tutti ormai dei media. E ogni gesto comunicativo è, potenzialmente, un atto di fiducia. O di disinformazione.
Domani, lunedì 30 giugno, alle ore 21.00, saremo in LIVE per il nostro appuntamento mensile dedicato ai nostri abbonati AiwayLAB per parlare delle innovazioni in campo video AI, con un approfondimento verticale su Midjourney Video (non troverete nulla di più evoluto in Italia, quindi non perdetelo), e poi approfondimento di alcune questioni che riguardano in particolare il futuro dell’ecosistema Apple perché… c’è molto che sta bollendo in pentola, e questo sarà più importante di quello che potrebbe sembrare. E non solo: stanno succedendo molte cose di cui vogliamo parlarvi (che riguardano questioni molto delicate… che ci fanno capire che forse dobbiamo smettere di usare alcune app e… andare a vivere in Danimarca.
Se siete abbonati ad AiwayLAB vi aspettiamo, se non siete abbonati potete acquistare il PASS per questo evento imperdibile (che potrete fruire sia in diretta LIVE, sia con la registrazione del video).