Solitudine e compagnia: il nuovo paradosso del creativo
I fotografi affrontano la solitudine di ogni scelta, dal clic alla selezione finale. L’AI non sostituisce il suo sguardo, ma può accompagnarlo, offrendo prospettive e interpretazioni inaspettate.
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C’è un istante – quello che precede lo scatto – in cui il mondo sembra sospeso in una bolla di silenzio. È il momento in cui il fotografo trattiene il respiro, come un atleta prima dello sprint decisivo, sapendo che l’immagine che sta per catturare non è soltanto il risultato di un insieme di parametri tecnici, ma una scelta che non viene quasi mai condivisa con altri. È solo, in quell’attimo, con il suo corpo che si fa estensione della macchina, e con un occhio che deve decidere dove posare il peso della memoria visiva.
Questa solitudine non è un incidente di percorso, ma un DNA professionale. Il fotografo lavora spesso ai margini, in un dialogo spezzato tra la propria visione e quella del cliente, tra ciò che ha immaginato e ciò che verrà accettato, pagato, pubblicato. Eppure, quella solitudine non si consuma solo nel gesto dello scatto, si amplifica nelle ore di selezione – il rito lento, quasi liturgico, di scegliere un’immagine tra cento – o nelle notti di post-produzione, dove il mondo sembra ridotto a un monitor che emette luce fredda e a una mente che cerca di non smarrirsi tra micro-decisioni che, sommate, faranno la differenza tra un lavoro anonimo e uno che vibra di una vita propria.
È una solitudine fatta di responsabilità, e quindi di peso. È la stessa condizione che Sergio Marchionne, con la sua brutalità intellettuale, riconosceva come destino del leader: puoi ascoltare mille pareri, puoi costruire tavoli di confronto e brainstorming, ma c’è un momento in cui la decisione finale ti chiede di essere solo.
“Il leader, un vero leader, deve decidere da solo.
E non c’è niente di più pauroso in tutto quanto che il riconoscere il fatto che sei solo.
In quel momento la responsabilità e il peso delle decisioni che stai prendendo ti arrivano, e ti rendi conto che non hai spazio per coprirti, perché sei solo tu, e la cosa la deciderai.”
Sergio Marchionne
Nessuno può prendersi il carico della tua ultima firma. “Sognare è consentito – diceva – ma realizzare è doveroso”, e la differenza tra il sogno e l’azione, tra la bozza e il prodotto, tra l’idea e lo scatto, è spesso scavata da una donna o un uomo che devono avere il coraggio di dire “questa sì, questa no”.
E poi arriva l’AI. Non come spettatore, ma come collaboratore (anche dalle idee alternative).
Il fotografo di oggi si muove in un paesaggio che non ha precedenti: non è più l’unico occhio, l’unico sguardo, l’unico processore di senso. Le nuove intelligenze artificiali – quelle che si insinuano addirittura nei browser di nuovissima generazione che cambiano completamente un’esperienza ormai ben irradicata in tutti noi da decenni, parliamo per esempio di Comet di Perplexity, ma non solo – non si limitano a restituire informazioni, ma iniziano a suggerire traiettorie, a ordinare il caos, a costruire una continuità cognitiva. È un cambio di paradigma sottile ma irreversibile: il web smette di essere un labirinto di tab aperte, per diventare un organismo che collabora, che orchestra, che in qualche modo “pensa con te”.
E allora la domanda è inevitabile: che cosa significa essere soli, oggi, quando persino il gesto di cercare un’idea può essere condiviso con un’intelligenza artificiale che non dorme mai, che non si distrae, che non ha dubbi?
Forse il rischio più grande non è l’errore tecnico, ma la possibilità che la solitudine – quella che ci ha insegnato a dubitare, a fermarci, a guardare – venga anestetizzata da un coro di risposte, di suggerimenti, di alternative. La solitudine creativa non è mai stata un difetto: è una lente d’ingrandimento, un filtro che ci obbliga a confrontarci con il nostro istinto, che è importante, fondamentale: smettere di usarlo per affidarsi solo ad una guida esterna, ci farà perdere la bussola, la direzione, e gli obiettivi.
Eppure… (ed è qui il paradosso che sentiamo esplodere proprio ora) l’AI potrebbe - se usata correttamente e con saggezza - diventare non un intruso, ma un alleato nella fase più dura della scelta, rafforzandoci. Non per decidere al posto nostro – il rischio come detto sarebbe catastrofico – ma per offrirci quella “seconda opinione” che, in realtà, i creativi hanno sempre cercato e raramente trovato. Un amico invisibile che ti sussurra: “Hai considerato questa prospettiva? E se guardassi la tua foto come fosse una metafora, e non solo un’immagine?”.
Dalla macchina muta al dialogo
C’è una differenza abissale tra la macchina fotografica tradizionale – che obbedisce, ma non consiglia e che comunque è “una macchina” – e un’AI che non solo elabora, ma interpreta, magari anche allenata da noi per fagli capire quello che davvero è per noi importante. E questo potrebbe liberarci da una delle trappole peggiori: l’ossessione per la perfezione tecnica, che troppo spesso schiaccia il senso, il significato, la storia che vogliamo raccontare. Forse, in definitiva, è arrivato il momento di accettare che un algoritmo, con la sua freddezza, può rivelarci imperfezioni che non sono difetti, ma indizi di vita.
In questo futuro già presente, il fotografo potrebbe non essere più solo nella sua stanza mentale, l’AI non sarà mai la mano che scatta, ma può diventare la voce che stimola una riflessione, il critico che vede ciò che non vediamo, il compagno che – pur non avendo occhi – ci costringe a guardare meglio, che accompagna, che ci costringe a non essere prigionieri del nostro unico punto di vista. Una compagnia silenziosa, ma potente, che non cancella la solitudine, bensì la rende uno spazio meno ostile.