La leva che non serve più, eppure serve ancora
Datemi una leva e vi solleverò il mondo, diceva Archimede. Oggi, una levetta, che ci riporta nel passato, forse ci fa intuire qualcosa di importante sul futuro dell'interazione tra umani e macchine.
C’è un momento, impercettibile ma ineludibile, in cui il fare umano si stacca dalle mani e diventa pensiero puro — come se la mente, finalmente libera dal peso dei gesti, potesse galleggiare in uno spazio rarefatto, dove il comando è idea e non più movimento. È la promessa (o la minaccia?) che ci sussurra l’intelligenza artificiale: un mondo dove la nostra creatività non ha più bisogno di passare attraverso le dita, le leve, i pulsanti. Dove persino un click diventa una reliquia, come i vecchi orologi a carica manuale, come le monete tintinnanti nei distributori automatici. Eppure… ci scopriamo ancora innamorati di quei gesti “inutili”.
Pensiamo - ci fanno sempre ridere, ci ricordano i film di fantascienza che cercano sempre di intercettare umani e macchine in qualche modo, e oggi diventa realtà - ai captcha, che ogni giorno ci chiedono di dimostrare la nostra umanità selezionando immagini di autobus o semafori: è un rituale paradossale, un piccolo teatro dove proviamo a ricordare a noi stessi — e alle macchine — che siamo diversi, che non siamo solo algoritmi. Ed è una nostalgia di presenza, come quella che ci fa desiderare di avanzare la pellicola in una fotocamera che non ha pellicola. È stata presentata la nuova Fujifilm X-Half e la Yashica FX-D, due macchine che incarnano un paradosso: sono digitali, moderne, ma ti obbligano a compiere il gesto rituale di far avanzare una pellicola che non esiste. Perché? Perché il gesto conta, anche quando non serve. Perché c’è un piacere fisico, quasi animale, nel sentire lo scatto secco di una leva che scatta, un ritorno al corpo in un mondo sempre più smaterializzato.
La Fujifilm X-Half si propone con una esperienza d’uso che unisce le gesture (e persino l’output “provini a contatto”) dell’analogico ad una tecnologia digitale super moderna, e addirittura il posizionamento del sensore in verticale per strizzare l’occhiolino alla GenZ (e alla GenX che vuole sentirsi ancora giovane).
La Yashica FX-D è un progetto su Kickstarter che propone una nuova avventura per questo storico brand, Yashica, fondata nel 1949 a Nagano, in Giappone, e che produsse fotocamere, obiettivi e altri accessori fotografici fino al 2005, quando l’allora proprietaria, Kyocera, chiuse l’azienda. Alcuni anni dopo, un acquirente con sede a Hong Kong, MF Jebsen Group, acquisì il marchio Yashica e iniziò a produrre nuove fotocamere e altri prodotti fotografici. Il video è bello, ben fatto… peccato che il mirino reflex è “finto”, ma al tempo stesso il prezzo è molto competitivo.
Dall’altra parte c’è il sogno opposto, quello dei visionari come Sam Altman e Jony Ive, che con la loro IO stanno progettando interfacce invisibili, dispositivi senza schermo né tastiera, dove la macchina ci capisce prima ancora che parliamo (abbiamo segnalato questa notizia settimana scorsa, qui). È un progetto che profuma di futuro, forse insieme ad un po’ di distopia, perché sembrerebbe portarci verso un mondo dove non tocchiamo più nulla, dove tutto è pensiero e comando, dove l’interfaccia sparisce e noi diventiamo pensiero puro, senza mani, senza corpi. Non crediamo sarà così, e che anzi sarà solo una faccia della medaglia.
E allora? Dove ci porta questa tensione tra il gesto e il pensiero, tra la nostalgia e l’innovazione? Non c’è una risposta unica, né giusta. C’è però una consapevolezza che cresce, come una radice che si insinua sotto la pelle: le gesture non sono solo abitudini, sono memoria muscolare, sono storia personale, sono cultura. Quando azioniamo la leva su una fotocamera, stiamo toccando il passato — ma anche dando un senso al presente. Eppure, non dobbiamo cedere alla tentazione di pensare che il passato sia sempre meglio: il futuro, anche quello che ci fa paura, va affrontato, esplorato, capito.
Chi progetta interfacce oggi (pensiamo ai designer, ma anche agli studenti che accompagniamo ogni anno nell’ambito dello studio della UI/UX) e chi queste interfacce le usa e le sceglie ogni giorno (spesso si sceglie un prodotto proprio per quello che ci trasmette “usandolo”, pensate all’incredibile successo del Remarkable, una “tavoletta” per scrivere come su un foglio di carta, che è un vero e proprio “must” per molti e che in questi giorni ha ottenuto una certificazione che solo dal nome - “Calm Tech” - ci fa venire voglia di acquistarne uno; un’idea che abbiamo da tanto tempo ma non riuscivamo oggettivamente a trovare un motivo logico per spendere alla leggera 400 euro) deve capire questo equilibrio: quanto delle gesture mantenere, quanto lasciar andare. Quanto innovare per davvero, e quanto invece conservare come un rito, come una liturgia.
Amber Case, fondatrice del Calm Tech Institute, e Jon Dalvang, VP of Product Design di reMarkable, celebrano la certificazione Calm Tech di reMarkable.
La Fujifilm X-Half (che pur è molto innovativa, per esempio scegliendo di posizionare il sensore in verticale per ovvi motivi di “nuova cultura visiva”) e la Yashica FX-D ci raccontano o provano a raccontarci che a volte un gesto è solo un gesto — e va bene così. Ma ci dicono anche che non possiamo smettere di chiederci perché lo facciamo. Perché ci serve una leva che non serve? Forse, per sentirci ancora umani.
Siamo dentro un paradosso, e il paradosso è umano. È questo che ci salva. È questo che dobbiamo ricordare, ogni volta che scorriamo una leva, anche se la pellicola non c’è più.