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Non è l’AI a decidere cos’è bello: siamo noi che clicchiamo sugli stereotipi
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Non è l’AI a decidere cos’è bello: siamo noi che clicchiamo sugli stereotipi

La bellezza non la decide l’AI, ma i nostri click. Il caso della nuova campagna Guess su Vogue mostra che siamo noi a nutrire gli stessi stereotipi che critichiamo.

Premessa: nelle ultime settimane abbiamo pubblicato il SundayJumper anche in versione Podcast, un esperimento che sta ottenendo un buon successo (che ne pensate?). Solo che per motivi tecnici abbiamo inviato due newsletter: una con il testo e la seconda con il podcast, creando un po’ di confusione e forse anche qualche fastidio. Da questa edizione, trovate tutto in un unico invio: il podcast e, qui sotto, il tradizionale testo scritto; potete scegliere quello che preferite, magari esplorarli entrambi e variare la scelta in funzione del momento. Grazie della vostra attenzione e buona domenica!

Questo è l’ultimo Sunday Jumper prima della pausa estiva. È quel momento che ci lascia sempre quel senso di sospensione che hanno gli aeroporti a fine luglio: si chiudono le valigie, ma non le idee; si tirano i fili di un discorso prima di lasciarlo in sospeso, come una nota che non si spegne ma vibra sottotraccia, in attesa di settembre.

E a settembre, torneremo con progetti nuovi, con quella freschezza che solo il silenzio sa preparare. Intanto, voglio lasciarvi con una riflessione che nasce da una notizia — non tanto una novità, quanto un segnale, uno specchio che non ci restituisce l’immagine che vorremmo, ma quella che siamo.

La doppia pagina pubblicitaria apparsa pochi giorni fa su Vogue USA, la modella è realizzata con l’AI ed è il classico esempio dell’uso stereotipato della donna nella pubblicità. Ma leggete tutto, perché c’è qualcosa di più profondo da valutare insieme

La storia arriva dalle pagine del numero di agosto di Vogue, dove per una pubblicità Guess ha scelto di affidarsi a una modella che non esiste: una figura generata dall’intelligenza artificiale, bionda, perfetta, impeccabile, molto in stile “Guess". In un angolo, quasi un avvertimento, la piccola scritta che svela il trucco: “creata con AI”. Non è la prima volta che il mondo della moda flirta con l’artificiale, ma questa apparizione ha fatto rumore; ci sono state polemiche, accuse di superficialità, il timore di un ritorno a modelli estetici sempre più irraggiungibili: ma quando mai questi modelli sono stati “superati”? È facile puntare il dito contro la tecnologia, dire che “è l’AI a imporre uno standard di bellezza stereotipato, falso, di pura plastica, disumano”. Ma la verità — spiacevole, quanto cristallina — è che lo stereotipo non nasce dall’algoritmo, ma dai nostri occhi, e decidete voi se rientrate in questo “noi”, o se volete tirarvi fuori, ma se lo fate, dove sono i fatti che vanno oltre le parole che lo dimostrano?

La conferma arriva dalle stesse fondatrici di Seraphinne Vallora, la società che ha creato la modella virtuale. Dichiarano di avere provato a generare volti diversi, corpi con altre forme, tonalità di pelle più varie, espressioni meno convenzionali. Risultato? Pochi like, interazioni quasi nulle sui social. E allora la domanda, se la vogliamo davvero affrontare, non è “cosa fa l’AI?” ma “cosa cercano le persone?”, cosa cerchiamo “tutti noi”? Perché siamo proprio noi (eccezioni escluse che, come detto, dovrebbero dimostrarlo con i fatti che sono davvero delle eccezioni) a scegliere di premiare la patina liscia e rassicurante di un volto perfetto, anche quando fingiamo di combattere quella perfezione. L’AI non fa altro che amplificare i desideri e i pregiudizi che già esistono, come un eco digitale delle nostre ossessioni.

La pubblicità, d’altronde, ha sempre vissuto di archetipi. Anche quando si è vestita da “anti-pubblicità”, quando ha urlato contro gli standard dominanti, lo ha fatto usando lo stesso codice che diceva di voler scardinare. Pensate alle campagne che ostentano la diversità come trofeo, come nel caso di Dove che negli ultimi anni ha rilanciato il suo impegno storico — dal “Campaign for Real Beauty” al recente film “The Code”:

Mette in scena una denuncia degli stereotipi imposti dall’AI, ma utilizzando proprio lo stereotipo come strumento narrativo per generare dibattito e attenzione attorno al brand.

Un altro esempio di grande forza comunicativa è invece il celebre video “Real Beauty Sketches” sempre di Dove che vediamo qui sotto:

È uscito nel 2013: mostra ritratti realizzati sulla base della descrizione che le donne hanno fatto di se stesse, accostati ad altri ritratti basati invece sulla descrizione che altri hanno fatto delle stesse persone. Il lieto fine del video è che gli altri ci vedono più belli (o belle) di quanto non ci vediamo noi. Questo ci ricorda che ciò che conta davvero è come siamo capaci di raccontare e descrivere, non solo con lo sguardo ma con le parole: esattamente ciò che fa l’AI quando risponde a un prompt. Non è l’AI che sbaglia, ma chi descrive in modo limitato ciò che sta immaginando.

Lo stereotipo non si abbatte sbandierando “io lotto per il cambiamento”, ma facendo sì che la diversità diventi normalità. E qui sta il rischio che anche chi lotta per cause giuste, con l’intenzione di rompere gli schemi, finisca per mettere davanti il desiderio di apparire come il paladino del cambiamento, più che contribuire davvero a quel cambiamento: il punto non è lo slogan o il riflettore, ma la capacità di lavorare sulla normalità, senza bisogno di trasformarla in protagonista. E la normalità, paradossalmente, è la cosa più rivoluzionaria che possiamo ricercare. Sono centinaia, migliaia di “normalità” che possono cambiare e migliorare le cose, non le singole azioni che enfatizzano e si concentrano sul problema.

Per fare un esempio pratico e tecnico: mentre in molti discutono degli stereotipi della bellezza dell’AI, Midjourney, con la sua nuova versione 7 uscita un paio di mesi fa, ha iniziato a scalfire queste rigidità, offrendo naturalmente volti meno patinati, figure che somigliano a persone reali piuttosto che a sagome da passerella. Ma pochi lo hanno notato, fuori dagli addetti ai lavori, perché la maggioranza preferisce continuare ad avere “un nemico di cui parlare”, e non un compagno che sta lottando accanto a noi. Le persone non sanno di queste evoluzioni perché, invece di accettare di entrare nel cuore del problema e degli strumenti per migliorarli e usarli con coscienza, preferiscono puntare il dito, trovare un motivo per apparire alternativi evidenziando i problemi, senza provare a risolverli o a comprenderli. E qui si apre un nodo culturale enorme: davvero vogliamo immagini più autentiche, o vogliamo solo conferme rassicuranti di ciò che non funziona? E, come dall’esperienza di Guess: se poi - purtroppo - le persone reagiscono esattamente positivamente a quegli stereotipi e non prestano attenzione a quelli che “vogliono combattere questi stereotipi”, cosa dovrebbero fare le pubblicità e i brand? Lo dichiariamo apertamente: a noi, tutto questo, fa ribrezzo, ma parlare non serve, essere paladini di cause perse deve farci pensare al COME combattere queste cause, e non funziona farlo solo con frasi ad effetto da “Pubblicità Progresso”.

Forse l’unica via d’uscita è smettere di concentrarci solo sulle immagini e tornare a raccontare storie: le fotografie, oggi, sono troppe, bruciate nell’istante stesso in cui vengono guardate. La vera differenza sta nei messaggi, nei valori, nel senso che quelle immagini portano con sé. Non serve costruire un’estetica “contro” per sentirsi giusti o moderni, non serve gridare al cambiamento solo per dire “non sono come gli altri”. Finisce con l'essere una battaglia sterile, un esercizio di vanità travestito da rivoluzione. La normalità, l’umano imperfetto, lo sguardo sincero: sì, sono queste le vere armi contro gli stereotipi ma per riuscirci dobbiamo contestualizzarle, portare gli utenti a riflettere, a soffermarsi, a comprendere, a cambiare. Per farlo, serviranno immagini, tante, e in questo l’AI può aiutare moltissimo, ma senza quella speranza che basti quell’immagine per il cambiamento: tantissime immagini, racconti, percorsi, abitudini, storie, emozioni… tutto questo insieme significa che servono altri mezzi, altri media, o quantomeno comprendere che i media attuali vanno usati in modo diverso, più immersivo, più completo e, ovviamente, meno superficialmente.

Pensateci, in questa estate che si apre: quale è il nostro ruolo? Fare immagini “belle”? Percepite come “belle”? Oppure vogliamo e pretendiamo di più dagli utenti? Se a questa risposta esclamate un SÍ, allora dovete pretendere di più anche da voi stessi, come interpreti di una nuova cultura, di un nuovo atteggiamento. Altrimenti, rimaniamo solo sugli slogan, e ci meritiamo che il nostro pubblico (di clienti, di utenti, di follower) vedano solo quello che sta in superficie.


Buona estate, se volete mandateci qualche saluto, diteci se vi fa piacere ascoltare la nostra versione podcast, se avete consigli per fare meglio e per esservi più utili!
A tra qualche settimana.


Grazie per avere letto (e ascoltato) il nostro SundayJumper. Visto che per voi è una azione semplice, e per noi invece è molto importante, per favore condividete questo post e questo podcast, fate un commento, segnalatelo alle persone che possono essere interessate ai temi che trattiamo.

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